Sembra ferrea la volontà del governo di modificare la disciplina pensionistica vigente. Ma la volontà potrebbe scontrarsi con gli oneri della sostenibilità finanziaria. La chiusura della procedura d’infrazione per lo sforamento del tetto del 3% del rapporto deficit/Pil non ci garantirà chissà quali margini di manovra. Si parla di una manciata di miliardi in più, otto per la precisione. Saranno sufficienti per introdurre la flessibilità in uscita (si decide di andare in pensione in cambio di penalizzazioni o incentivi entro una forbice compresa tra i 62 i 70 anni)? Lo abbiamo chiesto a Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera.
E’ buona norma non cambiare la disciplina pensionistica ogni volta che cambia il governo. In questo caso, è lecito fare un’eccezione?
Non stiamo parlando di una nuova riforma, ma di correzioni altamente auspicabili, dato che a seguito della riforma Fornero si è determinata una situazione socialmente insostenibile. Mi riferisco, in particolare, a quelle centinaia di migliaia di persone rimaste senza reddito da pensione e da lavoro. Si tratta di coloro che, in buona fede, hanno cessato il rapporto di lavoro in presenza di un sistema pensionistico che avrebbe garantito loro di andare in pensione uno o due anni dopo la cessazione. Ma che, per gli effetti della riforma Fornero, sono obbligati ad attendere, in certi casi, addirittura a 6 o 7 anni.
Quali correzioni servono?
Anzitutto, è necessario un nuovo intervento per ampliare la platea dei cosiddetti salvaguardati. Attualmente, tre successivi provvedimenti legislativi, hanno derogato 130mila persone, che potranno andare in pensione con le vecchie regole. L’Inps sta procedendo alla valutazione delle domande sui primi 65mila. Più di 8mila hanno già ricevuto la pensione. Tuttavia, 130mila deroghe non risolvono il problema. Centinaia di migliaia di persone continueranno ad essere “intrappolate” (o rischieranno di esserlo) per anni, senza ricevere lo stipendio né l’assegno pensionistico. Un secondo intervento dovrà avere carattere strutturale.
E cosa dovrà prevedere?
Occorre inserire un principio di flessibilità all’interno del sistema previdenziale. Assieme ad altri esponenti del Pd ho presentato una proposta che consenta l’accesso al regime pensionistico a chi abbia maturato almeno 62 anni di età e 35 di contributi, con una penalizzazione dell’8% rispetto alla soglia attualmente prevista dei 66 anni. Tale penalizzazione decrescerebbe del 2% per ogni anno che si decidesse di restare al lavoro (6% a 63 anni, 4% a 64 e così via). Contestualmente, è previsto un incentivo del 2% per ogni anno di ritardo dal ritiro. A 70 anni, quindi, la maggiorazione sarebbe dell’8%.
Già ai tempi in cui la riforma fu definita si parlava di flessibilità. Tuttavia, la Ragioneria generale dello Stato si oppose.
Non dobbiamo dimenticare, anzitutto, che con la riforma Fornero il costo della crisi è stato fatto pagare ai pensionati. Si risparmieranno, fino al 2020, 22 miliardi di euro e dal 2020 al 2060 se ne risparmieranno altri 350. Evidentemente, se questo enorme risparmio sarà eroso, occorrerà individuare delle coperture finanziarie. Questo si potrà e si dovrà fare attraverso le pieghe del bilancio. Indubbiamente, il meccanismo di flessibilità suddetto attenuerà l’erosione, mentre altre risorse si potranno recuperare da quei famosi 8 miliardi che l’uscita dalla procedura d’infrazione del tetto del 3% del rapporto deficit/Pil ci dovrebbe garantire. Tuttavia, tutto ciò è ben diverso dall’affermare che il sistema non sia in equilibrio. E, infatti, il presidente dell’Inps, in più occasioni, ha affermato che lo è. Mastrapasqua ha, inoltre, fatto presente che le riforme Damiano e Sacconi hanno portato l’età media di fuoriuscita dal lavoro a 61 anni e 3 mesi, in media con l’Europa.
Quindi?
Il nostro sistema è perfettamente allineato a quello degli altri paesi europei. La Fornero ha spostato in avanti il limite al punto tale da farci risultare i primi. Un record a cui si può rinunciare volentieri. Non dimentichiamo, infine, che chi viene lasciato senza pensione rappresenta pur sempre un costo che lo Stato dovrà accollarsi in termini di sussidi di disoccupazione. Anche da questo punto di vista, è molto più ragionevole introdurre un criterio di flessibilità.
(Paolo Nessi)