Il mio articolo di ieri dedicato ai 50 anni (che ricorrono oggi) della Mater et Magistra, si chiudeva con il richiamo alla partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell’impresa. In Giovanni XXII come in Pio XI e Pio XII, mi sembra che la raccomandazione di un’efficiente partecipazione dei lavoratori alla comproprietà dell’impresa sia, fra le altre, una possibilità per allontanare dall’impresa stessa i crescenti condizionamenti del capitalismo finanziario; sia, in altre parole, un tentativo per mettere sotto il controllo anche del lavoro il “luogo” ove esso fattivamente partecipa alla creazione della ricchezza.
Per quanto riguarda il lavoro e la sua remunerazione, Giovanni XXIII non afferma solo che essa deve essere giusta, ma ne richiede anche il rispetto dell’equità, ma soprattutto evidenzia come questo fattore produttivo non debba mai essere valutato e trattato alla stregua di una merce, in quanto essendo per la maggioranza degli uomini l’unica fonte di sussistenza “la sua remunerazione non può essere abbandonata al gioco meccanico delle leggi del mercato; deve invece essere determinata secondo giustizia ed equità, che altrimenti rimarrebbero profondamente lese, fosse pure stipulato liberamente da ambedue le parti, il contratto di lavoro”( 10).
Affinché il contratto di lavoro non debba essere considerato alla stregua di ogni altro contratto che si può mettere in essere sul mercato, è necessario che “operai e imprenditori devono regolare i loro rapporti ispirandosi al principio di solidarietà umana e della fratellanza cristiana; giacché tanto la concorrenza in senso liberistico, quanto la lotte di classe, in senso marxistico, sono contro natura e contrarie alla concezione cristiana”(15).
Il richiamo ora si è fatto forte e preciso: solo quando gli operai e gli imprenditori si riconoscono nella fratellanza umana (nell’essere portatori degli stessi bisogni) o in quella cristiana (l’essere figli dello stesso Padre) allora il loro vincolarsi (come capitale e lavoro) nell’impresa può acquistare i connotati dell’equità, altrimenti a prevalere sarà o la violenza materialistica del richiamo egoistico del liberismo o quella materialistica della lotta di classe; entrambe si riporteranno e saranno confortate nell’essere “giuste” solo perché saranno rispettose (quando lo saranno) di leggi che il potere ha costituito ad hoc proprio per loro.
In conseguenza di questo Giovanni XXIII richiede che il compito di controllo e verifica circa la giustezza e l’equità del contratto di lavoro sia un preciso obbligo dello Stato, che ha il dovere di “procurare che i rapporti di lavoro siano regolati secondo giustizia ed equità, e che negli ambienti di lavoro non sia lesa, nel corpo e nello spirito, la dignità della persona umana” (13).
Un altro momento essenziale che l’enciclica riserva al rapporto tra capitale e lavoro è quello relativo alla retribuzione che spetta ai dipendenti. Giovanni XXIII, allacciandosi in particolare alle affermazione contenute nella Quadragesimo anno, in via preliminare intende evidenziare che l’aspettativa dei lavoratori a partecipare attivamente alla vita delle imprese è da reputarsi del tutto legittima anche se “non è possibile predeterminarne i modi e i gradi” una volta per tutte, ma “ in ogni caso, si deve tendere a che l’impresa divenga una comunità di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nelle posizioni di tutti i suoi soggetti” (78).
Il faro dell’attenzione è così rivolto alle relazioni, alle funzioni e alle posizioni che debbono essere tali da instaurare nell’impresa una “comunità di solidarietà” e non un perenne conflitto di interessi così come, anche se con considerazioni diverse, alimentano l’egoismo capitalistico e lo spersonalizzante marxismo. A questo fine Giovanni XXIII avverte la necessità che il potere aziendale sia detenuto oltre che dai “portatori di capitali o di chi ne rappresenta gli interessi” anche dai “lavoratori o coloro che ne rappresentano i diritti, le esigenze, le aspirazioni”(78). E questo viene affermato alla luce del primato del lavoro sul capitale (principio che sarà successivamente puntualizzato nelle encicliche sociali del Beato Giovanni Paolo II) là ove si afferma: “Il carattere preminente del lavoro quale espressione immediata della persona nei confronti del capitale, bene di sua natura strumentale” (94).
Tutto questo giunge sino ad alcune considerazioni sempre più puntuali. La remunerazione dei lavoratori deve anche aver “riguardo al loro effettivo apporto nella produzione e alle condizioni economiche delle imprese; alle esigenze del bene comune” (58), anche perché “la ricchezza economica di un popolo non è data soltanto dall’abbondanza complessiva dei beni, ma anche e più ancora dalla loro reale ed efficace ridistribuzione secondo giustizia a garanzia dello sviluppo personale dei membri della società” (62).
Nel punto successivo, Giovanni XXIII effettua una considerazione illuminante che, sotto il profilo degli studi di economia aziendale, risulta foriera di solidi spunti per una revisione del potere e dei modelli aziendali. Egli afferma “Non possiamo qui non accennare al fatto che oggi in molte economie le imprese di medie e grandi proporzioni realizzano, e non di rado, rapidi ed ingenti sviluppi produttivi attraverso l’autofinanziamento. In tali casi riteniamo poter affermare che ai lavoratori venga riconosciuto un titolo di credito nei confronti delle imprese in cui operano” (62) e, quindi, riproponendo integralmente le parole di Pio XI afferma: “È del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa negando l’efficacia dell’altro” (63).
Tutto questo, se da un lato è un’esigenza di giustizia e di equità distributiva, dall’altro è la modalità solidale che indirizza il capitale e il lavoro (gli unici veri “abitanti” dell’impresa) verso la desiderata “comunità di interessi” e questo può avvenire solo se (e ancora vengono riprese le stesse parole di Pio XI): “I lavoratori nelle forme e nei gradi più convenienti, possano giungere a partecipare alla proprietà delle stesse imprese giacché oggi come più che ai tempi del nostro predecessore, ‘è necessario con tutte le forze procurare che in avvenire i capitali guadagnati non si accumulino se non con eque proporzioni presso i ricchi, e si distribuiscano con una certa ampiezza fra i prestatori d’opera’” (64).
Personalmente, come studioso di economia aziendale, debbo molto a queste ultime considerazioni dei due papi, giacché gran parte del mio tentativo di revisione dei modelli aziendali trova proprio in esse origine e conforto.
(2 – fine)