Le modifiche alla riforma delle pensioni potrebbero trovare, grazie al cambio di governo, concreta attuazione. Sia il premier Letta che il ministro del Lavoro Enrico Giovannini hanno mostrato fin da subito l’intenzione di porre rimedio ai principali errori prodotti dalla normativa Fornero. Anzitutto, attravero l’introduzione di un meccanismo di flessibilità che consenta di scegliere se andare in pensione entro una forbice compresa tra i 62 e i 70 anni, ricevendo disincentivi o incentivi a seconda che si scelga di lasciare il lavoro prima o dopo. Potrebbe risultare benefica anche l’introduzione della staffetta generazionale: il lavoratore anziano cede parte delle proprie ore lavorative ad un giovane, che l’azienda si impegna ad assumere. Titti De Salvo, deputata di Sel presente in commissione Lavoro, ci spiega cosa ne pensa di queste ipotesi.
Lei pensa che la legge Fornero vada cambiata?
La legge Fornero contiene non solo degli errori, ma un’impostazione di fondo sbagliata e ideologica. La stessa ministro aveva fatto presente che la fretta sarebbe stata cattiva consigliera. Di fatto, ha prevalso la necessità di far cassa nell’immediato su ogni altro ragionamento. Il che ha prodotto, anzitutto, la vicenda degli esodati. Le riforme delle pensioni e quella del lavoro, inoltre, hanno dato luogo un combinato disposto che ha esacerbato la questione.
Cosa intende dire?
La riforma delle pensioni ha innalzato repentinamente i requisiti, mentre quella del lavoro, nonostante la crisi abbia espulso tantissimi lavoratori dal tessuto produttivo, ha ridotto gli ammortizzatori sociali. Ciò significa che non solo esistono centinaia di migliaia di esodati, ma, se non si apporteranno delle modifiche significative, ce ne saranno sempre di più.
Lei cosa suggerisce?
Per gli esodati va individuata una soluzione strutturale in termini di deroghe e salvaguardie. C’è da sperare che il ministro, anzitutto, tenga fede all’impegno di porre fine allo scandaloso valzer delle cifre che si è verificato nel calcolo delle persone che si trovano in queste condizioni. Inoltre, sarebbe necessario definire un sistema che consenta di andare pensione in coerentemente con il lavoro che si è fatto. Un conto è andare in pensione a 67 anni da infermiera di una corsia d’ospedale altro andarci da docente universitario. Oltretutto, con l’aumentare delle aspettative di vita, l’età minimima diventerà 70 anni.
Come valuta, invece, l’introduzione di forme di flessibilità?
La cosa più importante sarà essere precisi nel definire la proposta. Nel sistema contributivo, infatti, la rendita pensionistica è legata ai contributi accumulati nel corso della vita e al momento in cui si va in pensione. La penalizzazione, di conseguenza, è già di per sé insita nel meccanismo. Come se non bastasse, il calcolo dei coefficienti di trasformazione è legato in misura proporzionale all’andamento del Pil, che sta calando da anni ed è destinato a calare ulteriormente. La flessibilità di per sé, quindi, non è un male. Restiamo perplessi sul fatto che venga annunciata senza che siano stati fatti i calcoli opportuni affinché non risulti eccessivamente penalizzante.
Cosa ne pensa, infine della staffetta generazionale?
Lidea è antica. L’uscita morbida dal rapporto di lavoro potrebbe rivelarsi utile non solo perché consentirebbe l’assunzione di giovani, ma anche perché contribuirebbe a un invecchiamento attivo del lavoratore anziano. L’ingresso nell’età della pensione, infatti – come dimostrano numerosi studi -, è un momento particolarmente difficile, specialmente per gli uomini. Una fase di transizione consentirebbe il mantenimento di un maggiore equilibrio psicofisico. Ovviamente, perchè l’ipotesi non risulti penalizzante, sarà fondamentale garantirgli il pagamento intero dei contributi.
(Paolo Nessi)