Il dibattito sul reddito minimo garantito è tornato a galla. In Germania è uno degli argomenti centrali del pre-campagna elettorale. Nel Paese dei diritti del lavoro, infatti, non esiste, perché i sindacati non l’hanno voluto. La Spd ha promesso di introdurlo in caso di vittoria. I socialdemocratici già nel 2003, con Schroeder, approvarono i mini-jobs: lavori a orario ridotto pagati 400 euro al mese, che da dieci anni hanno portato un’importante deregolamentazione.
Anche in Spagna c’è polemica. Il Governo di Zapatero ha aumentato considerevolmente il reddito minimo. Ora raggiunge i 645 euro e la Banca di Spagna, nella sua ultima relazione annuale, raccomanda di sopprimerlo per i disoccupati di lunga durata, i lavoratori meno qualificati e i giovani. I sindacati si sono opposti e il Governo ha subito spiegato che non intende cambiare nulla. Questo dibattito si sta sviluppando in un momento in cui la disoccupazione ha raggiunto il 27%, con un 57% di giovani disoccupati e con una previsione di assenza di cambiamenti significativi nei prossimi due anni.
In realtà, la discussione sugli effetti del salario minimo è antica. Già negli anni ‘90 impegnò gli economisti. Una scuola sosteneva che una retribuzione minima inferiore alla produttività reale avesse effetti negativi. I suoi oppositori, però, dimostrarono che gli effetti erano nulli, perché tutto si sistema grazie all’economia sommersa: lavoratori e imprenditori si mettono d’accordo, al di là della legge.
Un altro caso è quello di giovani. Qui non c’è dubbio sul fatto che gli effetti sono negativi: un salario troppo alto è una barriera. La questione riguarda chiaramente la Spagna, dove il tasso di insuccesso scolastico è del 26%. Prima che scoppiasse la bolla immobiliare, i giovani senza qualifica abbandonavano presto la scuola e trovavano un impiego con stipendi altissimi nell’edilizia. Questo ora non accade più e quei giovani rimasti senza titoli di studio e lavoro ora non riescono a rientrare nel mercato e non possono nemmeno tornare a scuola. Con un altro sistema educativo e con più flessibilità nelle retribuzioni, la relazione tra il mondo scolastico e quello lavorativo sarebbe più fluida.
La polemica sul salario minimo mostra fino a che punto siamo immersi nella “ipocrisia lavorativa”. I diritti sono garantiti per alcuni lavoratori, mentre l’economia sommersa supera il 20% del Pil. Questa economia non versa i contributi sociali, né le tasse, quando sarebbe invece necessario e urgente aumentare le entrate. Tuttavia, l’ipotesi di abbassare i contributi per aumentare il gettito nelle casse pubbliche resta un tabù.
Per non perdere altri diritti, dato quel che sta accadendo, conviene parlare di queste temi. E disposti a essere sinceri fino in fondo potremmo dirci qualcosa di quello che abbiamo intuito in questi lunghi e duri anni. Perché si tratta di ricostruire, sebbene da molto in basso, un mondo con lavoro. Cosa per cui non sono necessarie solo riforme economiche, ma anche le esperienze esistenziali di questo periodo. Il diritto costituzionale al lavoro e il diritto a remunerazione giusta per la quale si lotta non possono essere l’unico orizzonte.
Dopo aver perso una parte importante del salario, essere stati in molte occasioni terrorizzati dalla paura di essere licenziati, piuttosto che aver già perso il lavoro e passato tanto tempo a cercarne un altro senza riuscirci, ci si sono rese evidenti due cose apparentemente contraddittorie.
In alcuni istanti, nel bel mezzo di questa difficile situazione, abbiamo intuito che valiamo più dello stipendio che ci davano o che potremmo contrattare. La famiglia, un buon amico, forse una saggezza elementare, ci hanno permesso di recuperare la semplice evidenza del fatto che la cosa più radicale era il fatto di essere vivi, e che questo era un dono, una dimostrazione del fatto che eravamo amati, nonostante l’evidente fallimento o l’ingiustizia subita. Questi momenti di lucidità hanno permesso di superare l’ansietà e la frustrazione che ha chi sta con le braccia conserte.
L’altra semplice evidenza è che non potevamo rimanere quieti. Che un uomo che non lavora viene distrutto e che restare senza niente da fare è indegno. Stiamo imparando che per generare e trovare lavoro c’è bisogno di impiegare molto tempo gratuito e non remunerato: nell’educarsi, nel creare reti, nel pensare insieme e nello scoprire le opportunità. E nel fare attenzione a non confondere valore e prezzo. Stiamo imparando molto.