Caro direttore,
l’articolo di Luca Valsecchi, pubblicato su queste pagine lunedì 4 luglio e centrato in particolare sul nesso tra sfondo educativo e “occupabilità di un titolo di studio”, nesso che trova la sua traduzione nel Gi Day Orientamento attivo dal prossimo 19 luglio a Milano, credo meriti alcune sottolineature.
Valsecchi, nella prima parte, espone il suo approccio all’insegnamento che, ce lo dobbiamo confessare, non è scontato oggi nel mondo degli insegnanti. In troppe occasioni, infatti, mi è capitato di notare come per molti docenti la scuola sia comunque “scuola dei docenti” più che “scuola degli studenti”. Non è cioè, per mia esperienza diretta, scontato il suo valore di “servizio pubblico”, come attenzione prioritaria al successo formativo dei giovani d’oggi, nel senso di una golden share, seppur minoritaria del quadro degli interessi dominanti nella nostra società (e della nostra azione politica), che è pur sempre fondamentale per il loro futuro. Come per il futuro del nostro “sistema Paese”.
Sarà per il “sindacalese” che domina ancora in molti collegi dei docenti, sarà per pratiche consolidate che portano gli insegnanti a scaricare sugli studenti gli eventuali insuccessi formativi, resta comunque la constatazione di una cultura della formazione e dell’istruzione che soffre, oggi più di ieri, dell’impoverimento dello sfondo educativo.
Non che, con questo, si voglia fare di ogni erba un fascio, perché tanti docenti sono davvero impegnati e danno tutto se stessi per i nostri giovani. È che noto che quella trasparenza che Valsecchi dà per scontata, scontata poi non è. Nel senso che, al di là anche delle migliori intenzioni, vedo dominare quel certo meccanicismo cartesiano, da Valsecchi ripreso, che è duro da morire.
Ho provato, ad esempio, a più riprese a proporre la riflessione sul fatto che ogni bocciatura è una sconfitta, anzitutto per la scuola, prima che per gli studenti e le famiglie. È prevalsa, ad esempio, nelle diverse scuola, durante gli scrutini, una lettura pedagogica della bocciatura, del brutto voto ecc.; oppure la lettura darwiniano-burocratica, per cui la selezione diventa l’obiettivo della scuola, non il bene del ragazzo?
Per questo motivo, sto pensando di proporre ai docenti del mio Liceo, come filo conduttore del prossimo anno, la valutazione, intesa come ripensamento dell’idea di scuola e della sua programmazione didattica. Una sorta di riflessione a ritroso. Una volta si diceva che “sbagliando si impara”, ma perché questo abbia un senso, deve essere chiaro il valore positivo anche di una bocciatura. Cosa non evidente in troppi presidi e docenti, ma anche in molte famiglie, che vivono la bocciatura come sconfitta personale, mentre è solo una richiesta di ripensamento e, in molti casi, di ri-orientamento.
Ho notato negli ultimi anni che i docenti tendono sempre più ad auto-assolversi, a puntare l’attenzione solo sulle prestazioni (valore matematico del voto), e non sui processi, sulla maturazione (valore formativo del voto). A volte, in particolare durante gli scrutini (ne ho seguiti 80), ho visto che alcuni docenti tendono a lasciarsi sfuggire giudizi non corretti sugli studenti: “non è capace”, “non ha talento”, “non è intelligente”, “non ha attitudini”, mentre dovremmo essere più rispettosi da un lato del loro essere persone, e dall’altro del fatto che le prestazioni a scuola degli studenti sono solo risposte agli stimoli che ricevono, e che gli stimoli della scuola, soprattutto oggi, nella vita degli studenti, lo sappiamo bene, incidono per un 30% dei loro interessi.
La nostra bravura è, dunque, far di tutto perché quel 30% diventi la fonte principale della loro domanda di futuro, la vera golden share della loro vita. Ciò che in termini europei è una delle otto competenze chiave di cittadinanza: imparare ad imparare. Quanti docenti e presidi, a una verifica qualitativa del loro servizio, si troverebbero bocciati, di fronte a questa competenza chiave?
Per questo è fondamentale introdurre un sistema di valutazione che valuti tutti nelle scuole. Oggi è impossibile solo a parlarne. Chi sono i migliori docenti? Quelli che fanno appassionare, che trasmettono ai giovani, con la domanda personale di conoscenza, la domanda sul senso del loro essere e vivere. I docenti e i presidi non possono ridursi a burocrati preoccupati solo di “selezionare” gli studenti: quando uno studente si iscrive a una scuola domanda alla scuola stessa fiducia, chiede e offre fiducia. Quindi da un lato questo atto va colto al volo ai fini motivazionali, dall’altro la scuola stessa deve far di tutto per far emergere i talenti che ci sono. Talenti diverse per diverse intelligenze. Tutte da coltivare.
Uno studente manifesta attitudini diverse? Va accompagnato ad altra scelta, va aiutato a toccare con mano percorsi più rispondenti (con stage in altre scuole). Oggi, invece, la scuola è ancora troppo centrata sui docenti e poco sugli studenti. La via d’uscita per i docenti è il rinnovamento della didattica: non più una frontale (il vecchio ipse dixit), ma una induttiva, laboratoriale, che metta al centro la domanda degli studenti di conoscenza, di curiosità….
Molti docenti questo l’hanno capito e fanno di tutto per dare una mano. Ma ci sono in tutte le scuole docenti che arrivano agli scrutini con sole medie aritmetiche (5,38, 3,86, 6,64, ecc.). È facile insegnare ai bravi, più difficile metterci l’anima per dare una mano, anzitutto in termini motivazionali. Esempi? Durante l’orientamento in ingresso, far toccare con mano ai ragazzi delle scuole medie le diverse proposte delle superiori (laboratori orientanti, e non solo le vetrine delle scuole negli open day). E quando si iscrivono, attraverso delle verifiche di inizio anno, preparare percorsi sul metodo di studio (per aiutare i ragazzi più in difficoltà a fare i compiti).
Scuola, dunque, come reale “servizio pubblico”, cioè rivolto a tutti, per il bene dei nostri studenti. Chi si iscrive a una scuola, lo ripeto, domanda e offre fiducia: questa non va tradita. Il darwinismo burocratico serve solo ad auto-assolvere quei docenti e presidi che non hanno ancora capito cosa voglia dire riconoscere la centralità dello studente e il valore pubblico del proprio lavoro didattico. La bocciatura è, dunque, sempre una sconfitta. Non solo per gli studenti e le famiglie. Ma prima ancora per i docenti.
I bravi docenti si vedono dal “valore aggiunto” che riescono a far maturare nei ragazzi, al di là degli indirizzi di studio. Ma i bravi docenti sanno altre cose. Sanno che i nostri giovani vanno messi alla prova, costretti, in poche parole, ad apprendere velocemente cosa voglia dire “essere vigili”, “svegli”, aperti alle novità e alle nuove opportunità, di vita prima che di lavoro. Messi cioè di fronte alle proprie responsabilità, alla sfida della propria libertà. Oggi questo accompagnamento concreto alla vita adulta manca nel mondo della scuola, a parte alcune belle eccezioni.
L’attenzione verso il fenomeno dei Neet, di cui parla Valsecchi, che in Italia coinvolge il 29% dei nostri giovani, va preso sul serio. In termini anzitutto di prevenzione e quindi di accompagnamento a scelte adeguate.