Nella sua opera capitale, i “Principi di economia” (1890), Alfred Marshall scriveva che “quando un’industria ha scelto dove collocarsi, probabilmente ci starà a lungo, tanto sono grandi i vantaggi che le persone che svolgono la stessa attività ottengono dalla prossimità reciproca; i misteri di quell’attività non sono più misteri e, come fossero nell’aria, ogni bambino impara a svelarne molti senza averne coscienza”.
Se il grande economista inglese aveva ragione, ciò significa che il nostro Paese non può aver perso il potenziale che lo ha portato a essere il secondo Paese manifatturiero d’Europa e, all’inizio degli anni 2000, la quinta potenza economica del mondo. È sotto gli occhi di tutti quanto la grande crisi economica ci abbia ferito, ma il nostro declino parte da lontano con la mancanza di risposte che il Paese non ha dato ai grandi cambiamenti dell’economia globale, sia sul piano dell’impresa che non ha saputo innovarsi come il mercato chiedeva, sia sul piano della politica economica. Solo oggi abbiamo un piano organico, abbiamo dovuto perdere 10 punti di Pil per capire che era necessario intervenire in modo sistemico. Il piano Calenda, per quanto perfettibile, è la prima risposta organica che il decisore mette in campo. Certo, il decisore agisce, o non agisce, anche in ragione di quanto la rappresentanza del lavoro e dell’impresa lo influenza e lo condiziona. Nel grande immobilismo della politica economica dell’ultimo ventennio, le responsabilità sono quindi da dividere tra governi vari e sindacati.
Proprio il Presidente degli Industriali è intervenuto in questi giorni al Meeting di Rimini – tra l’altro insieme ad Annamaria Furlan, Segretaria Generale Cisl – e al di là di quanto abbia rimarcato il potenziale del nostro Paese che – ricordava Vincenzo Boccia – è capace di competere con i suoi principali concorrenti in condizioni di fisco e capacità produttiva nettamente inferiori, ha toccato qualche punto interessante. Un grande errore del passato – diceva Boccia – è stato quello di ritenere la questione industriale degli industriali. Oggi che le grandi economie avanzate (vedi in particolare Usa, Gb e Germania) pongono la questione industriale al centro dell’agenda politica, ancora resiste in Italia un residuo ideologico che la ritiene degli industriali e non del Paese. Se, ancora, Alfred Marshall aveva ragione, è chiaro che l’industria non è degli industriali, cosa che apre a problemi diversi e non solo, per esempio, alla riduzione del carico fiscale sull’impresa, ma anche alla crescita di modalità di partecipazione.
La questione industriale è cruciale per la crescita, ma, proseguiva Boccia, la crescita deve essere vista non come il fine, ma come la precondizione per contrastare diseguaglianza e povertà e, quindi, per costruire una società migliore e più inclusiva. Naturalmente si tratta di punti che paiono scontati, ma che nelle scelte del decisore incontrano sempre delle resistenze. Non dimentichiamo, ad esempio, che proprio il penultimo governo – quello guidato da Matteo Renzi – era chiamato in alcuni ambienti il governo di Confindustria per alcuni provvedimenti – leggi anche piano Calenda – volti a favorire la crescita dell’industria.
Detto questo, è chiaro quanto la rappresentanza degli Industriali, come quella del lavoro, serva a orientare e a proporre soluzioni alle scelte del decisore. La speranza è che ciò avvenga in modo collegiale. Le Confederazioni di impresa e lavoro conservano quindi un ruolo fondamentale. Nella ridefinizione dei compiti, lo spazio di partecipazione di queste alla costruzione della politica economica deve crescere e perfezionarsi.
Resta aperta la questione di quanto le stesse organizzazioni confederali possano partecipare delle politiche contrattuali, prevalentemente figlie delle categorie dell’industria. Non a caso, lo stesso Presidente Boccia intervistato su queste pagine a riguardo, è stato piuttosto elusivo. La crescita della contrattazione di secondo livello, su cui oggi punta anche la parte di sindacato che più vi ha resistito negli ultimi anni, apre a una nuova stagione della contrattazione che punta sullo scambio salario-produttività, sancito in modo limpido dal recente contratto metalmeccanico.
Continua a risultare misterioso, a questo punto, il ritardo con cui le Confederazioni lavorano al modello contrattuale. Ma forse, a questo punto, non ce n’è più bisogno.
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