C’è un dato all’apparenza sorprendente che riguarda il divario tra il numero dei Neeet – superiore ai 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano – e la richiesta di personale qualificato proveniente dalle aziende italiane. I dati dell’ultimo rapporto Excelsior di Unioncamere infatti riportano sui circa 340.000 giovani sotto i 29 anni richiesti dalle aziende nel periodo luglio-settembre 2017, una difficoltà di reperimento che si attesta attorno al 40% per le 10 professioni più richieste e in generale una richiesta di diplomati tecnici largamente disattesa.
L’analisi delle cause che determinano un livello di disoccupazione giovanile così elevato in un momento di ripresa economica e di grandi possibilità di impiego è senza dubbio complessa e merita approfondimenti che abbracciano sia il mondo dell’impresa che quello della formazione e hanno importanti radici nell’ambito sociale. Vale la pena di analizzare qualche elemento a partire proprio dagli ambiti citati.
Il mondo dell’impresa, soprattutto in campo manifatturiero, sta attraversando un momento di grande cambiamento legato alle nuove tecnologie che dovranno essere implementate per consentire di mantenere produzioni qualitativamente elevate, automatizzando i processi, riducendo i costi e personalizzando i prodotti. L’introduzione di tecnologie avanzate, spinte dall’impulso di “industria 4.0”, ha evidenziato un problema, peraltro già presente da tempo, legato all’acquisizione delle competenze tecniche e alla necessità di poter contare su risorse umane preparate e costantemente aggiornate. In altre parole, le aziende si trovano nella necessità di agire su due fronti: da un lato riqualificare il proprio personale per portarlo a un livello superiore richiesto dal cambiamento dei sistemi produttivi e dall’altro acquisire nuove risorse dotate di competenze avanzate, che comunque dovranno essere ulteriormente formate riguardo alle produzioni specifiche dell’azienda.
Le aziende più strutturate da qualche tempo e con molto ritardo rispetto alle esperienze del Nord Europa, si stanno attrezzando per organizzare al loro interno autonomamente o con risorse esterne sistemi formativi tesi a un continuo aggiornamento dei dipendenti, anche se è chiaro che la necessità di introdurre nuove risorse implica che i neoassunti siano già dotati di opportune competenze di tecniche di base.
Nel sistema produttivo italiano, dominato dalle piccole e medie imprese, la gran parte delle aziende non ha però la struttura e le risorse sufficienti per organizzare sistemi formativi interni e spesso le imprese si aspettano, come in realtà avveniva fino a qualche anno fa, che diplomati e laureati in discipline tecniche possano essere immediatamente operativi (o quasi) una volta assunti. Attribuiscono quindi esclusivamente al sistema formativo istituzionale il compito di formare “tecnici finiti”, assorbendoli una volta terminato il ciclo di studi. A questo si aggiunge l’assenza di una programmazione delle assunzioni che induce la richiesta di personale solamente quando le commesse acquisite dall’azienda creano problematiche produttive, momento nel quale anche la disponibilità di risorse per la formazione interna è limitata.
Questa impostazione fa sì che spesso i rapporti delle aziende con le scuole si limitino alla mera richiesta delle “liste dei diplomati” alle quali attingere per possibili assunzioni, salvo poi lamentare lo scarso livello di preparazione dei diplomati e la loro inadeguatezza alle posizioni richieste, oltre a una esigua disponibilità numerica.
Anche il secondo ambito, quello della formazione, sta vivendo momenti di grande cambiamento. Il sistema formativo istituzionale (Scuole superiori e Università), pur potendo contare su esempi di eccellenza e su competenze di indubbio livello, ha vissuto nel corso degli anni un progressivo distacco dal mondo produttivo di scuole tecniche e università che solo recentemente vede un’inversione di tendenza legata all’introduzione obbligatoria dell’Alternanza scuola-lavoro nelle scuole superiori, alle poche esperienze di applicazione dell'”apprendistato di terzo livello” e al successo di “sistemi misti” di formazione come gli Its (Istituti Tecnici Superiori).
Il risultato più evidente è un lento declino dell’istruzione tecnica che ha visto un costante impoverimento di competenze e di strutture legato sia a problemi di tipo organizzativo, sia a scelte politiche non del tutto coerenti con le esigenze di formazione dell’impresa, ma soprattutto a una filosofia di fondo che espressa in vari modi, vede il mondo della cultura assolutamente staccato e indipendente dal sistema economico produttivo.
Aggiornamento non obbligatorio dei docenti, sistema di reclutamento non basato sulle competenze, resistenze all’adozione di nuove metodologie didattiche, riduzione delle ore di laboratorio a vantaggio di quelle di teoria (che quasi sempre si riducono ad aride lezioni frontali), mancata promozione di sistemi premiali per i docenti, difficoltà organizzative legate alle regole dell’organizzazione statale, sono solo alcune delle problematiche che non consentono alla scuola tecnica italiana di riconquistare il ruolo di “centro di erogazione di cultura tecnica” che aveva nello sviluppo industriale del dopoguerra.
Da ultimo non è da trascurare il contesto culturale ed educativo generale delle famiglie italiane che influisce pesantemente sulle scelte dei giovani rispetto al tipo di studi e alla formazione su cui investire. L’idea generale, non supportata da dati reali, è che esistano professioni su cui vale la pena investire – in genere le classiche: medico, avvocato, ingegnere, commercialista -, mentre ambiti considerati meno elevati, riservati comunque a personale con competenze di livello, pur essendo i più richiesti dal mondo industriale vengono classificati come ripieghi nella scelta del percorso formativo. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un radicale cambiamento: professioni e figure professionali che fino a qualche anno fa garantivano carriere di successo ed elevata posizione sociale con relativi vantaggi economici, oggi ad analisi puntuale, risultano meno vantaggiose di nuove figure tecniche richieste dalle imprese manifatturiere. Un esempio di questo sta proprio nei dati del citato studio Excelsior di Unioncamere, che vedono tra le figure più richieste e anche meglio retribuite quella di “tecnico in campo informatico, ingegneristico e della produzione”.
I numeri relativi alla disoccupazione giovanile, nettamente in contrasto con la richiesta di personale da parte delle aziende hanno quindi, all’evidenza dei fatti, una spiegazione: i ragazzi che cercano lavoro non hanno le competenze richieste dalle aziende. Tale risposta apre nuove questioni: sono le aziende che richiedono competenze diverse e più elevate o è il sistema formativo che non assolve compiutamente alla sua funzione oppure infine sono le famiglie che non riescono a educare in modo adeguato e a far compiere ai figli le scelte opportune?
È necessario che tutti facciano la loro parte. Ma proprio l’urgenza dei numeri richiede che si proceda ad un cambiamento radicale che coinvolga aziende, scuole e sistema sociale. Per superare la criticità, scuole e aziende dovranno sviluppare assieme un sistema che consenta a tutte le realtà produttive, anche di ridotte dimensioni, di collaborare alla formazione dei giovani tecnici. Il sistema formativo dovrà integrarsi al sistema produttivo acquistando maggiore flessibilità e favorendo interazioni nelle docenze e nell’aggiornamento dei formatori, oltre che nella formazione degli allievi, pur mantenendo il compito di formazione generale della persona.
Sistemi formativi “misti” come quello attualmente sperimentato dagli Its con partecipazione attiva delle imprese nell’organizzazione delle scuole, sia dal punto di vista didattico che da quello della gestione, pur nei numeri limitati, sono la dimostrazione evidente che quanto indicato può essere messo in pratica. Se azienda e scuola collaborano alla preparazione di un tecnico per un inserimento programmato, evidentemente il sistema non può che creare occupazione qualificata con reciproco vantaggio.
La stessa Alternanza scuola-lavoro inserita nelle programmazioni didattiche della scuola secondaria superiore, pur tra mille difficoltà organizzative e normative, costituisce un enorme passo avanti nel cambiamento di mentalità che dovrà forzatamente avvenire sia nel mondo del lavoro che in quello dell’istruzione. Al centro dell’attenzione devono restare sempre i giovani.
Il numero di Neet attualmente presenti nel nostro Paese è certamente un problema sociale, ma i ragazzi di oggi non sono peggiori di quelli di qualche anno fa, né in generale hanno “meno voglia di fare”. Non si deve dimenticare che ogni lavoratore è in primo luogo una persona e l’educazione della persona è primariamente impartita dalla famiglia. Il modo di comportarsi, il rispetto degli altri e degli impegni presi, la responsabilità, l’autonomia, la curiosità e la voglia di imparare, la capacità di rapportarsi con gli altri, doti essenziali valutate anche in sede di assunzione, possono essere favorite nella crescita con l’azione degli enti formativi, ma si basano principalmente su presenza e interventi quotidiani della famiglia. Probabilmente anche su questo tema, oltre che sui cambiamenti del sistema scuola-lavoro, dovrebbe essere compiuta qualche riflessione.