La riforma delle pensioni si farà (se si farà) dopo l’estate. Quasi certa l’introduzione di una flessibilità rispetto all’età di entrata in quiescenza, con una forbice tra i 62 e i 70 anni. Il che potrebbe consentire ad alcuni italiani di lasciare il proprio posto di lavoro in anticipo, in cambio di una riduzione dell’assegno pensionistico. Assenti dal dibattito sembrano provvedimenti riguardanti i giovani, che saranno pur sempre i pensionati di domani. Ne abbiamo parlato con Luciano Monti, Professore di Politica economica europea alla Luiss di Roma.
L’ultima riforma delle pensioni era stata presentata anche come portatrice di maggiore equità tra le generazioni. Secondo lei questo problema esiste?
Il problema della mancanza di equità tra generazioni o frattura generazionale è una questione ampia, che va ben oltre il sistema pensionistico. Appare ormai evidente a tutti come l’attuale situazione dell’economia italiana non sia tanto il risultato della fase recessiva in atto, ma abbia radici assai più profonde. Come ha giustamente evidenziato il VII Rapporto sull’economia italiana, curato del Centro studi di Economia reale, presentato oggi, da almeno un ventennio le spese correnti dello Stato sono lievitate, nonostante non vi sia stata una equivalente crescita del Pil. Per mutuare la definizione del Rapporto, ci si è comportati da “cicale”, utilizzando un metodo molto semplice, quello di tagliare le spese prospettiche, ovvero le spese future.
In che modo?
Dire che una spesa è prevista “in crescita” del 10% annuo e poi prevedere un taglio prospettico del 5% annuo significa procedere a un taglio virtuale che sottende un aumento reale. In altre parole, nessun Governo mai è intervenuto su costi storici e ora le nuove generazioni ne pagano il prezzo.
Quali possono essere le soluzioni per risolvere questo problema?
La causa è strutturale (mancanza di tagli reali), dunque strutturale deve essere la soluzione. È naturale che le soluzioni vanno trovate sulle principali poste della spesa corrente, che come noto sono la previdenza sociale, la sanità e il funzionamento della macchina amministrativa dello Stato, nelle sue varie declinazioni a livello nazionale, regionale e locale. Questo se ci ferma ai costi economici diretti: ma se dovessimo considerare anche quelli “nascosti” (i cosiddetti shadow prices), ovvero la riduzione del capitale naturale (le nuove generazioni dovranno fronteggiare i costi dei mutamenti climatici) e del capitale sociale (i danni causati dalla permanenza nello stato di Neet e disoccupato), emergerebbe una frattura molto più ampia.
Il governo si prepara, dopo l’estate, a mettere mano alla riforma delle pensioni per introdurre un sistema di flessibilità. Forse c’è il rischio che si possa incentivare la permanenza sul posto di lavoro rendendo più difficile il turn-over tra lavoratori anziani e giovani. Occorre allora, come si era ipotizzato, introdurre la staffetta generazionale?
Secondo me, la staffetta generazionale non è la soluzione al problema. Il problema non è avvicendare risorse in un posto di lavoro, ma porre le basi per ricreare nuovi posti di lavoro, mediante interventi di sostegno all’offerta (con la garanzia giovani) e sulla domanda (stimolando la ripresa dell’economia reale). Per entrambe le azioni servono ingenti risorse e investimenti. Queste risorse non possono essere reperite che dalla lotta all’evasione fiscale, dalla riduzione della spesa corrente e dalla ridistribuzione del carico fiscale, perché il Pil da solo non si riprende. Delle tre però la seconda e la terza sono quelle che possono assicurare subito risultati economici.
Secondo lei, esiste il rischio che i giovani di oggi non solo abbiano difficoltà nell’entrare nel mondo del lavoro, ma si ritrovino anche con una pensione che non gli permetta un tenore di vita simile a quello avuto durante la vita lavorativa?
Non è un rischio: è una certezza. Per due motivi. Il primo è che l’attuale e (corretto) sistema contributivo finirà comunque per penalizzare le nuove generazioni che si presenteranno all’età della pensione con lunghi periodi di precariato o disoccupazione. Il secondo è che nutro dubbi sulla sostenibilità dell’attuale sistema previdenziale, basato su ottimistiche previsioni di crescita nel medio lungo termine che sono tutte da confermare. Ancora una volta emerge il solito vizio di considerare le spese prospettiche e non i dati storici.
La Corte di Cassazione ha recentemente “bocciato” il cosiddetto contributo di solidarietà sulle pensioni molto elevate. Cosa ne pensa?
Personalmente ritengo anacronistica la sentenza della Corte, soprattutto dove considera il trattamento pensionistico un “reddito differito”. Questo può avere un senso per le pensioni maturate ora con il sistema contributivo, ma quelle più “datate” ancora impostate sul sistema retributivo mi pare non presentino alcun sinallagma. Per usare un eufemismo, mi pare tanto “un eccesso di difesa”. Ciò premesso, tale sentenza va rispettata e quindi devono essere trovate altre strade per attuare quella che ho definito una politica di solidarietà generazionale. Nel dibattito della settimana scorsa alla Luiss attorno alla mia proposta sono state formulate alcune ipotesi.
Ce ne può parlare?
La più interessante è quella di prevedere un’imposizione le cui aliquote non siano legate solo al reddito, ma anche all’età dei contribuenti. A parità di reddito, un contribuente più giovane subisce un prelievo minore e uno più maturo un prelievo maggiore. L’andamento dell’aliquota sarebbe dunque “a campana”, con un picco di prelievo, per esempio tra i 60 e i 70 anni. Giovani e molto anziani sui due estremi della curva. Un’ipotesi da valutare con grande attenzione. Altro punto fermo deve essere quello della natura di prelievo di scopo.
E in questo senso cosa suggerisce?
Qualunque ne sia la fonte, tale prelievo (o riallocazione dalle spese correnti) deve essere destinato al problema della disoccupazione giovanile. La destinazione deve essere chiara e inequivocabile, mediante la costituzione di un fondo di solidarietà generazionale, al quale confluiranno anche le risorse stanziate da Bruxelles.