Il lavoro intermittente, anche noto come job on call (lavoro a chiamata), è una tipologia di contratto nata negli Usa, diffusa in diversi paesi europei (Belgio, Olanda, Germania) e introdotta in Italia nel 2003 con la Riforma Biagi (artt. 34 e seg. D.Lgs. 276/2003). È un contratto con cui il dipendente si mette a disposizione del datore di lavoro, che ricorre alla sua prestazione soltanto quando ne abbia effettivamente bisogno. Vediamo con un esempio (reale) se e come questo contratto è adatto alle imprese con attività discontinue ed esigenze saltuarie di manodopera.
Un gruppo societario internazionale, che riunisce diversi marchi del lusso ha l’esigenza di assumere un lavoratore di 51 anni come commesso nelle boutique milanesi perché lavori non in via continuativa ma solo al bisogno. Sembrerebbe proprio un caso di lavoro a chiamata. Ma secondo la legge italiana lo possiamo utilizzare? Oggi in Italia sono tre i casi in cui il lavoro intermittente è ammesso:
1) Per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati a livello nazionale o territoriale. Senza la contrattazione collettiva è possibile ricorrere al lavoro intermittente se l’attività svolta rientra tra quelle elencate nella tabella approvata con R.D. n. 2657/1923 (circa 50, alcune delle quali ormai obsolete). A oggi sono pochi i contratti nazionali che si sono attivati in tal senso: CCNL Alimentari Piccola Industria, Studi Professionali amministratori di condominio, Terziario Federcom/Cifa/Fiadel.
2) Per periodi predeterminati nell’arco della settimana del mese o dell’anno secondo le indicazioni contenute nei contratti collettivi nazionali o territoriali. Anche su questa previsione a oggi mi risultano pochissimi contratti: CCNL personale dipendente imprese esercenti servizi ausiliari, fiduciari, integrativi rese alle imprese pubbliche e private, CCNL Studi Professionali Amministratori di condominio.
3) Con soggetti con più di 55 anni di età (prima della Riforma Fornero erano 45 anni) e con soggetti con meno di 24 anni di età (24 anni meno un giorno), fermo restando che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il 25° anno di età.
Tornando al nostro esempio, il lavoratore individuato dall’azienda non rientra tra le categorie soggettive per le quali è consentito il lavoro intermittente (punto 3), in quanto ha meno dei 55 anni di età richiesti dalla legge. E il CCNL applicato dalla società (Commercio) non ha definito le prestazioni di lavoro discontinue (punto 1) e neppure i periodi predeterminati nell’anno per i quali sarebbe possibile ricorrere al contratto di lavoro intermittente (punto 2).
In assenza di una previsione contrattuale occorre quindi verificare se nel Regio Decreto del 1923 (punto 1), tra le numerose attività sia presente anche il commesso di negozio. La ricerca è fortunata, al punto 14 trovo: “Commessi di negozio nelle città con meno di cinquantamila abitanti a meno che, anche in queste città, il lavoro dei commessi di negozio sia dichiarato effettivo e non discontinuo con ordinanza del prefetto, su conforme parere delle organizzazioni padronali ed operaie interessate, e del capo circolo dell’Ispettorato dell’industria e del lavoro competente per territorio”. E dopo la lettura un momento di sconforto: Milano ha più di 50.000 abitanti.
Difficile arrendersi, e meno male, perché trovo, quasi per caso, che una Circolare del Ministero del Lavoro del 3 febbraio 2005, n. 4 ha precisato che “le attività indicate (appunto nella tabella allegata al Regio Decreto n. 2657 del 1923) devono essere considerate come parametro di riferimento oggettivo per sopperire alla mancata individuazione da parte della contrattazione collettiva […]. Pertanto i requisiti dimensionali e le altre limitazioni alle quali il regio decreto fa riferimento (es. autorizzazione dell’ispettore del lavoro) non operano ai fini della individuazione della tipologia di attività lavorativa oggetto del contratto di lavoro intermittente”.
Posso quindi proporre all’azienda un contratto di lavoro intermittente, anche a termine, che dovrà indicare: eventuale durata, l’ipotesi, in questo caso oggettiva che consente la stipulazione del contratto, il luogo e la modalità della disponibilità eventualmente data dal lavoratore, il preavviso di chiamata del lavoratore (non inferiore a un giorno lavorativo), il trattamento economico e normativo spettante per la prestazione eseguita e la relativa indennità di disponibilità, ove prevista. Il contratto può quindi essere stipulato con obbligo di disponibilità e il lavoratore sarà obbligato a rispondere alla chiamata del datore di lavoro.
In questo caso, per il periodo in cui il nostro commesso resta in attesa della chiamata, riceve un’indennità di disponibilità determinata secondo le indicazioni fornite dalla contrattazione collettiva (in questo caso assente) ovvero, in via sostitutiva, in misura non inferiore al 20% della retribuzione. Se il dipendente si rifiuta senza giustificazione di intervenire su chiamata può rischiare il posto di lavoro, oltre che la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all’ingiustificato rifiuto, nonché un risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi o, in mancanza, dal contratto di lavoro. Se il contratto è invece senza obbligo di disponibilità, il lavoratore non si impegna contrattualmente ad accettare la chiamata del datore di lavoro, ma non matura neppure il diritto all’indennità.
Riguardo gli adempimenti amministrativi è utile ricordare che oltre alla consueta comunicazione preventiva di assunzione, la Riforma Fornero ha introdotto l’obbligo di una comunicazione ulteriore da parte del datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro competente, prima dell’inizio della prestazione lavorativa a chiamata.
Nell’esempio il nostro contratto appena stipulato deve fare i conti anche con il recentissimo primo decreto sul lavoro di questo Governo (D.L. 76/2013) in vigore dal 28 giugno 2013, che interviene su alcune tipologie contrattuali atipiche tra cui il lavoro intermittente. Sul punto il Governo ha previsto che a decorrere dal 28 giugno 2013, “in ogni caso il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore, per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di 3 anni solari. In caso di superamento di detto limite, il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato”. Ci si chiede: si tratta di un’ulteriore casistica (oltre le 3 sopra elencate) per le quali è possibile stipulare il lavoro intermittente o di un nuovo limite “temporale” applicabile a ciascuna delle predette 3 ipotesi?
Quel “in ogni caso” lascia qualche dubbio, ma i commentatori sembrano tutti orientati nel ritenere che con decorrenza 28/06/2013 (prima data utile da cui dovrebbe decorrere il “contatore”) è introdotta una condizione limitativa al ricorso al contratto intermittente, anche se, da più parti, si auspicano i consueti chiarimenti operativi da parte del Ministero. Tornando al nostro esempio, fermo restando che la modifica, per la sua piena operatività, dovrà essere convertita in legge, il nostro commesso potrà essere chiamato nell’arco di un triennio dall’assunzione per un massimo di 400 giornate di lavoro effettivo, pena l’automatica trasformazione in un contratto a tempo pieno e indeterminato.
Penso si intuisca, dall’esempio, che il lavoro intermittente in Italia rimane una tipologia contrattuale di non facile applicazione. Ciò dipende certamente dal fatto che pochissimi CCNL hanno disciplinato l’istituto, nonostante l’ampia delega da parte della legge peraltro limitata ai livelli nazionale e territoriale.
È comprensibile che nell’ottica sindacale di stabilizzare i rapporti di lavoro questa tipologia contrattuale non sia ben voluta: “Non puoi organizzarti la vita, dipendi da una telefonata, è un contratto che non garantisce uno stipendio sufficiente per vivere perché presuppone attività saltuaria”; e infatti, nonostante la legge sancisca la non discriminazione tra lavoratore intermittente e dipendente fisso, la diversità di tempo dedicato a un’attività produttiva determina, volente o nolente, una differenza di trattamento economico. Ma siamo sicuri che forse una sua riconsiderazione non sia possibile in questi tempi di crisi?