Il 2015 è ormai alle porte. C’è grande aspettativa per l’Expo, contornata da quel mix tra scetticismo e realismo tutto italiano: enorme è la preoccupazione di non riuscire a sfruttare questa (ennesima) grande occasione; questo pessimismo non è del tutto immotivato, infatti la “cabina di regia” per l’Expo è sostanzialmente ingessata. Tra i vari temi all’ordine del giorno, uno su tutti riguarda i contratti di lavoro. Non voglio entrare nel merito dei provvedimenti, ma cercare di dare un contributo sul dibattito, già ampiamente ospitato su queste pagine, riguardo posto fisso, buona flessibilità e precariato.
Partiamo dalla prima distinzione, forse quella più complicata, tra flessibilità (o buona flessibilità) e precariato. Quando un contratto, pur nella determinatezza della sua durata, può dirsi flessibile e non precario? Noi della Felsa-Cisl crediamo che la buona flessibilità sia quella contrattata, dove il prezzo della temporaneità lavorativa non ricade tutto sul lavoratore, ma è l’impresa a farsene carico. Questa non è utopia, perché nel lavoro in somministrazione (tramite le Agenzie per il lavoro) è già così. Il lavoratore percepisce la medesima retribuzione applicata ai dipendenti assunti direttamente dall’impresa utilizzatrice, ma costa di più all’azienda, perché l’Agenzia per il lavoro deve versare il 4% del monte retributivo agli Enti bilaterali del settore, che erogano prestazioni di carattere passivo (sostegni al reddito, assistenza sanitaria, tutela per maternità e infortuni) e attivo (formazione professionale e continua).
Può quindi un lavoratore in somministrazione dirsi precario? Io direi di no, anche se non ha il posto fisso, perché intorno a sé ha un sistema composto da Parti sociali e datoriali che gli offrono degli strumenti per arricchire il suo percorso professionale: dopo la scadenza del contratto di lavoro potrà beneficiare di un sostegno al reddito aggiuntivo rispetto a quello corrisposto dall’Inps e potrà avviare percorsi di riqualificazione e ricollocazione.
Un sindacato nuovo, che guarda con realismo all’evoluzione dei tempi, non resta spettatore del cambiamento, ma cerca di governarlo e agire con protagonismo. Non vogliamo che tematiche di natura contrattuale vengano regolamentate tramite decreto. Siamo pronti a mettere in campo la nostra responsabilità di Parti sociali e, in logica sussidiaria, a contrattare la flessibilità lì dove si gioca lo scambio tra esigenze del lavoratore e necessità dell’impresa.
Questo non mi sembra un atteggiamento “conservatore”, ma propenso a trovare una sintesi intelligente tra le diverse esigenze che muovono il mercato del lavoro. Tutti i giorni assistiamo alla chiusura di decine di aziende, quindi il posto fisso non è più garantito, nemmeno per coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato. Occorre quindi spostare le tutele dal posto di lavoro al mercato del lavoro, senza garantire “il posto” (sarebbe irrealistico), ma un accompagnamento e un sostegno all’interno del mercato del lavoro, affinché ciascuno possa costruire un proprio percorso occupazionale, costituito sia da opportunità di impiego che di aggiornamento professionale.
È una sfida. Noi intendiamo affrontarla in modo virtuoso e realista, venendo incontro alle esigenze organizzative e produttive delle imprese, ma allo stesso tempo non permetteremo mai che il prezzo dell’instabilità occupazionale ricada tutto sul lavoratore. Senza questo punto di partenza siamo convinti che, oltre ai grattacieli di Milano, Expo lascerà anche lo stesso numero di disoccupati del 2013.