L’Italia perde competitività e uno dei punti deboli rimane il lavoro. Il tasso di disoccupazione ha ormai superato stabilmente il 12 per cento, ma i dati più preoccupanti arrivano dal tasso di inattività, vale a dire le persone fuori dal mondo del lavoro e che nemmeno lo ricercano. I profili sono i più vari: dai giovani non in ricerca di lavoro fino a cinquantenni che non riuscendo a ritrovarlo, perdono anche la speranza di cercarlo.
La regolazione fino ad oggi esistente ha provocato lo stato di disagio attuale. Inoltre il sistema di welfare italiano non è minimamente strutturato, con interventi che sono sempre emergenziali (basta vedere la cassa integrazione in deroga). L’ottimo Dario Di Vico sul Corriere della Sera ricordava l’inutilità dei centri dell’impiego, che riescono a fare ritrovare lavoro solo al 3 per cento delle persone iscritte alle liste di disoccupazione. Vi è per fortuna l’interevento delle agenzie private, che grazie alle riforme degli ultimi anni sono riuscite ad offrire sempre maggiori possibilità ai disoccupati.
Il tema principale rimane tuttavia quello che troppe poche persone sono attive in Italia, poco più del 62 per cento, vale dire circa 10 o 15 punti in meno rispetto a quanto è registrato nellla maggior parte dei paesi europei.
Il mercato del lavoro oltretutto viene visto troppo spesso come una “torta” immutabile. Si sente infatti ricordare da alcune sigle sindacali che la mancata uscita di un lavoratore “anziano” non permette l’entrata di un giovane. Questa credenza è estremamente sbagliata e falsa. Nei paesi dove c’è maggiore tasso di attività tra la fascia d’età tra 55 e 64 anni, come in Germania, la disoccupazione giovanile è molto più bassa rispetto ai paesi dove c’è basso tasso di attività degli “anziani”. Questa credenza è gravemente sbagliata perché non permette di focalizzare bene il problema, che è composto da due parti: la mancanza di flessibilità in uscita e la mancanza di crescita economica.
Partendo dal secondo punto è chiaro che solo con una crescita economica solida è possibile ingrandire quella che viene vista come una “torta” del lavoro. Questa “torta” diventa più grande nel momento in cui si rimette in moto l’economia e c’è spazio per giovani e “anziani”.
Il primo punto è drammatico e deriva dall’impostazione di una parte del sindacato. La mancanza di flessibilità in uscita non permette al mercato del lavoro di avere quel giusto grado di flessibilità che permetta alla “torta” di espandersi. È chiaro che una riforma del lavoro deve essere accompagnata dalla riforma del welfare, perché non è possibile che circa il 60 per cento della spesa sociale italiana vada in pensioni e solo una percentuale infima finisca per la formazione di persone dai profili lavorativi deboli.
La flessibilità in uscita è sinonimo di meritocrazia. L’esempio della scuola pubblica svedese è lampante: il direttore di una scuola pubblica ha la possibilità di scegliersi i professori, i quali possono essere licenziati nel momento in cui gli alunni non raggiungono determinati livelli di progressione nell’apprendimento.
I problemi italiani nella regolazione del lavoro sono enormi e non sarà facile risolverli. Le ricette sono chiare e arrivano da molti paesi d’Europa. È chiaro che non sarà possibile copiare un modello tout-court, però la direzione deve essere chiara e deve essere quella di un’eliminazione di tutte quelle barriere che tengono fuori dal mondo del lavoro oltre 4 italiani su 10 in età lavorativa.