Gli stranieri che, in Italia, riescono a mettere in piedi loro attività sono sempre di più. E’ quanto emerge da una ricerca che il Cnel presenterà oggi, a Roma. Secondo la quale, la maggiore parte delle nuove aziende che convive con quelle autoctone si trova al Nord, con picchi massimi in città come Prato, dove rappresentano il 27,16% totale; al Sud, invece, non di rado si verificano situazioni di concorrenza se non di tensione. Sta di fatto che, spesso, queste imprese, sono un’opportunità di lavoro anche per gli italiani, che vi lavorano nel 13% dei casi. Del resto, spiega, contattato da il Sussidiario.net Emilio Colombo, docente di Economia internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, «se le imprese vengano realizzate da italiani o da stranieri è indifferente; l’importante è che si faccia impresa. Soprattutto, laddove non si sostituiscano a quelle nostrane, ma si aggiungano a esse».
Quindi, di per sé, si tratta di un elemento apprezzabile. «Tanto più se queste aziende danno lavoro anche agli italiani. Ovviamente, perché questo fenomeno mantenga una connotazione positiva, è necessario che tutto ciò avvenga nel rispetto delle leggi e a parità di condizioni rispetto alle aziende che operano sul nostro territorio». Detto ciò, il trend riflette una dinamica tipicamente italiana che è tutt’altro che positiva. Gran parte dei nuovi titolari si sono messi in proprio dopo aver lavorato per anni come dipendenti. Il che significa che hanno avuto tempo e modo di farsi una certa esperienza nel proprio settore e di mettere un capitale iniziale minimo da parte. «Hanno accettato, all’inizio – continua Colombo -, di fare dei lavori che gli italiani non vogliono più fare. Non necessariamente pagati meno o con condizioni peggiori di quelli rifiutati dai nostri connazionali».
Gli esempi, sono sotto gli occhi di tutti. Uno, valga per tutti: «Oggi, si ritiene che lavorare al call center sia meglio che fare l’operaio; quando, in realtà, le paghe sono più basse, gli orari di lavoro peggiori, le prospettive incerte e le garanzie contrattuali molto più risicate». Si tratta, anzitutto, di una determinazione culturale: «Negli anni si è instillato un pregiudizio dei confronti del settore manifatturiero in favore dei servizi». Tuttavia, il nocciolo del problema risiede nel nostro sistema di istruzione.
«Le nostre scuole professionali, infatti, sono pessime; questo fa sì vi sia un eccesso di domanda nell’istruzione di carattere generalista – i licei – che, tuttavia, per loro natura, sono propedeutici all’università». Ecco, quindi, cosa sovente accade: «Molti degli studenti che, magari, pur essendovi maggiormente portati, non hanno frequentato un istituto professionale perché di scarsa qualità, si ritrovano “costretti” a continuare gli studi. Spesso, tuttavia, non ci riescono, e abbandonano prima. A quel punto, non avendo qualifiche di alcun tipo, non resta loro che accedere ad un impiego nel settore dei servizi».