Il calcio, così come la vita, può riservare pericolosi deja vù. Basta poco, un attimo, un gesto, una granello nel litorale del tempo, per ricollegare l’adesso alle ombre del passato. Sabato sera, primo Ottobre dell’anno di (dis)grazia 2011, ero allo stadio per Inter-Napoli. Una debàcle, San Gennaro oltraggia la Madonnina con tre pizze indigeste: spero che almeno lassù qualcuno prenda provvedimenti.
Ma stavolta, più che figlio del risultato o dell’arbitro (qualcuno segni: Gianluca Rocchi da Firenze vince giornata al Purgatorio), il brivido ghiacciato ha madre francese: un altro di quei deja vù, ultimo episodio della fiction morattiana, a metà tra il comico e l’horror. Protagonista, l’ennesima sciagura mancina: Ricky maravilla Alvarez. Attorno al ventesimo, El Cacha Forlan gli porge un pallone rasoterra, nell’hinterland dell’area napoletana. Lui, anello di giunzione tra Zidane e Kaka, si trova sulla fascia destra, con molto spazio attorno.
Nemmeno nostro Signore ha avuto tanto tempo per tirar su questo mondo: lui, dovendo “solo” effettuare il più semplice dei cross, decide di provare col piede debole, il destro. Una frazione di secondo, l’impatto col pallone, deja vu. La mente torna… Primo Febbraio 2009, Inter-Torino: altro Ricky meraviglia, Quaresma, 24,6 milioni di zappate risparmiate allo Estadio do Dragao. Mandato in porta da Luigino Figo, calcia la sfera nello stesso punto dove due anni dopo la manderà Ricky A: secondo anello verde, settore 253, fila 4 posto 3.
Uno stesso gesto, un medesimo scempio tecnico ha aperto nel mio cervello traviato la divina voragine, in cui mi son gettato senza remore né Virgilio (altro che il cagasotto di Dante) per cercare risposta all’annoso quesito: possibile che le pippe di tutto il globo debbano rivelarsi tali in quel di Appiano, prima di diventare materiale da Mai dire gol? Non ce l’ho con Ricky A (con Ricky Q sì però), anzi, m’ero esaltato all’acquisto; da sempiterno e romantico ingenuotto, credevo (e timidamente spero ancora) che Branca avesse scovato il tesoro della Sierra Madre, che il ragazzo si farà, anche se ha le palle (mi perdoni De Gregori) strette. Il problema è più ampio: nella caccia all’oro del talento l’Inter tende a scambiare riflessi solari per pepite, pescando avidamente melma a piene mani, più di qualsiasi altra società.
Non che le altre rimangano immuni da abbagli, né voglio dire che sia cosa facile individuare campioni del domani già pronti per l’oggi: nella Mòria del calcio mondiale bisogna avere vista da elfo e rapidità da nano, qualità rare. Ma resta il fatto che, così come un diamante, anche una merda è per sempre: la pesti, la strisci sul marciapiede dei prestiti, ma rimane incrostata. Ed anche quando te ne liberi, permane la cicatrice, eco di sberleffi altrui.
Nella mia Divina Voragine (di nuovo, non me ne voglia l’Alighieri), attraversata nello spazio di un deja vù, ho ritrovato la perduta gente dell’Inter morattiana, vorticando nel pantano dei dannati del pallone. Che si apre con il limbo degli oggetti sconosciuti, condannati all’etterno oblio: gente come Sixto Peralta (2000-2001), come El Genio Pacheco, che di geniale ebbe solo l’idea di non farsi più vedere; o come il Kerlon dei giorni nostri, la Foquinha loca che ha appena rifiutato un biennale da Moira Orfei. Vale la pena inoltrarsi, ce n’è per tutti i gusti: da O Douthorinho Caio, tagliato a pennello per le vetrine del centro, un po’ meno per le aree di rigore, ad Avioncito Rambert, che da noi spiccò il volo solo per scappare, in un last minute che lo dirottò a Saragozza dopo quattro mesi. Anno d’oro, quel 1995.
Neanche il tempo di salutarli ed eccomi scivolare nello speciale girone dei Rivas: Martin, uruguagio mastin dal lungo crine assicurato da Recoba (…) che da noi ringhiò solo 25 minuti (comparsata in Inter-Empoli del ‘98), e il più recente Nelson, nero bollente colombiano, unico “Tyson” che si fa suonare dagli altri.
Tra gli scialacquatori fa la sua comparsa Van der Meyde, mustang di fascia destra che regalò una zebra alla sua fidanzata: uno spreco d’uomo. Fu prelevato dal ricco forziere dei lancieri olandesi, scelto tra i vari Ibrahimovic, Chivu, Van der Vaart, Sneijder, De Jong: quando si dice lungimiranza…
Non possono mancare le meteore, bozzoli importati troppo presto divenuti farfalle altrove: è il caso di Baby Irish Robbie Keane (alla faccia del bozzolo, con 30 miliardi ci compravi la foresta pluviale, che un ghepardo meglio di Hakan Sukur lo si trovava), o del più criptico Gilberto da Silva Melo, amico d’infanzia di Ronnie venuto per tamponarne la saudade, affermatosi poi all’Herta Berlino fino alla nazionale.
Una specifica cerchia precede la parte più nera: la Bidonville di quelli scarsi veri, arrivati in pompa magna ed allontanati di nascosto. Il re del pollaio è Lalo Sorondo, altro macho uruguaiano più attento a non spettinarsi che in marcatura. Nel mucchio ci finiscono anche Geremia Brechet, nome e piedi da pasticceria, e sì, anche BallBuster Farinos, per cui nell’estate 2000 si scatenò un’asta da fantacalcio col Milan, che un giorno si ritirò improvvisamente lasciando a Moratti la patata bollente valenciana.
Dulcis in fundo, precipito nei sodomiti, girone riservato al buon Vampeta per cose che ‘l tacere è bello, fino ad arrivare a sua diavoleria Ricky Quaresma, il buco nero di tutti i palloni, che sventra coi suoi tre piedi maledetti: destro, sinistro e trivela.
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa: il deja vu mi trascina in Purgatorio, dove manca sempre un centesimo per fare un euro. Mi scappa un sorriso nell’incrociare chi è stato scaricato anzitempo (R.Carlos, Mutu, Pinilla, Pelè), o chi ha saputo offrire la propria mediocrità alla causa (Okan Buruk, Karagounis, Pandev, Burdisso), o chi è ancora in lista d’attesa (Coutinho, Castaignos). Ad un passo dal Paradiso stanno il piccolo Emre (con possibilità di trasloco verso i quartieri alti), superDario Simic e Georgatos il greco, unico ellenico a soffrire di saudade. On the top, l’imperatore Adriano: vero, ci ha regalato tanto, ma l’incredibile Hulk dei fumetti, una volta esaurito l’impeto, tornava Bruce Banner, non è mai diventato Topo Gigio come il nostro.
Quindi uscimmo a riveder le stelle, ovvero quando i cercatori ci hanno preso. Introdotto da Nwankwo Kanu, che si trova qui solo perché miracolato da Moratti, m’accosto alla trinità (sì, non c’abbiam preso tanto), composta di Ramiro Cordoba, angelo custode della difesa, Chino Recoba (scelta discutibile? Anche Beatrice fece incazzare Dante) e dal sommo capitano Pupi.
Cosa trarre dal viaggio? Che a volte piuttosto conviene cercar meglio in casa nostra: i giovani italiani, pur senza il fascino o le potenzialità dei coetanei stranieri, sono immuni al virus dell’adattamento, e spesso richiedono meno zeri sull’assegno d’acquisto. Gli Zidane, i Thiago Silva, i Sanchez sono unici: meglio tirar su un prodotto nostrano alla De Rossi che rischiare il jackpot sul primo Alvarez che passa. A proposito, dove collocare Ricky A, padrino del grande deja vu? In mancanza (per ora) di prove schiaccianti, la lista d’attesa può andar bene.
(Carlo Necchi)