Jobs Act? Di nuovo? Ma sì certo: era un po’ che non se ne parlava, qualche settimana che non si assisteva ad accesi dibattiti televisivi tra intellettuali per spiegare come e qualmente esso sia l’origine di ogni male e di ogni disgrazia o viceversa come esso abbia salvato l’Italia. Oggi poi che “die grosse Koalition” ha vinto il referendum costituzionale, non è parso vero alle diverse anime che animano, è il caso di dirlo, la vita quotidiana del Pd riprendere a farsi del male e quindi ritornare su un argomento che agli italiani interessa il giusto.
Non che i lavoratori nostrani, intendiamoci bene, siano indifferenti alla conservazione del loro posto di lavoro, né che essi siano sordi di fronte alla prospettiva di potersi rivolgere al loro datore di lavoro senza doverci per forza rimettere il salario e l’occupazione. Ma il fatto è che i lavoratori italiani, in questi mesi, in questi anni, hanno avuto chiaro l’ordine d’importanza delle cose, e così hanno chiesto al Governo e alle forze politiche anzitutto di impegnarsi in favore del lavoro che non c’è perché nascono meno aziende di quante ne muoiano, e dei salari che non crescono perché i timidi aumenti non coprono le tasse locali che invece non sono timide per nulla. E siccome i suddetti lavoratori hanno avuto la percezione che il Governo Renzi, per quanto qualcosa abbia tentato in questa direzione, non sia però riuscito ad appagare le loro esigenze, ecco che alla prima occasione gli hanno presentato il conto della loro insoddisfazione.
Dunque torniamo al Pd e al Jobs Act. Questo strano partito, sempre conteso tra il passato prossimo e il trapassato remoto, sempre straziato da acuti dibattiti su temi interessantissimi per chiunque come “il mondo del domani e del post-domani”, “la società che verrà e la società che ha da venire”, ora prende a dilaniarsi su “Articolo 18 e Jobs Act”. Dev’essere che qualcuno ha ragionato più o meno così: siccome non siamo riusciti a creare sviluppo, almeno evitiamo per legge che il lavoro si perda.
Ma, appunto, non è il Jobs Act che fa perdere il lavoro quanto invece “bazzeccole e pinzillacchere” come avrebbe detto Totò il Grande, quali il costo del lavoro (in chiaro: le tasse che lo Stato impone sui salari alle aziende e ai lavoratori); il costo dell’energia (cioè le tasse che gravano su elettricità, combustibili, petrolio); il costo fuori controllo della sanità di troppe Regioni, a Statuto ordinario o speciale che siano; il costo di una burocrazia che vede se stessa soprattutto come lo stopper che deve impedire agli attaccanti avversari, in volgare imprese e società civile, di fare gol, cioè di produrre e svilupparsi; il costo di una rete informatica paragonabile a quella dei Paesi che vent’anni fa erano detti emergenti. Solo che loro nel frattempo sono emersi e hanno preso pure a navigare, mentre noi siamo qui a discutere se l’Italia deve uscire dal ventesimo secolo per entrare nel diciannovesimo o … nel ventunesimo secolo.
Se quindi il Jobs Act non è il problema economico, sociale, sindacale, più importante, perché il Pd segue, anzi insegue, i promotori del referendum indetto per abolirlo? Non certo per ragioni sindacali: la parola d’ordine dei “dem” negli anni delle divisioni tra Cisl, Cgil e Uil era il mantra dell’unità sindacale, che non doveva rompersi, che non poteva rompersi, che doveva essere cucita, incollata, attaccata, appiccicata in ogni modo e a ogni prezzo. Per la verità allora lo sforzo maggiore lo si chiedeva soprattutto alla Cisl, ma questo dev’essere il punto di vista del sottoscritto, che quel sindacato ce l’ha nel cuore. A ogni modo mai come oggi è così: i contratti si sono rinnovati unitariamente, gli accordi su temi delicati come quelli della rappresentanza, della rappresentatività, si sono sottoscritti all’unanimità; le polemiche tra le maggiori confederazioni stanno a zero o giù di lì. E allora? Non è che il Pd sia, in fondo in fondo, un po’ nostalgico delle spaccature, delle oceaniche manifestazioni “contro” le altre sigle, dei contratti rinnovati a maggioranza, delle dure tensioni in azienda?
Se non vogliamo, meglio, se non possiamo crederlo, allora non ci resta che pensare al peggio: il Pd si sta avvoltolando nell’ennesima polemica interna tutta proiettata a spostare qualche percentuale nei pesi interni delle diverse anime o sensibilità che dir si voglia. Sperando di conquistare il favore della Cgil, principale sostenitrice dei suddetti referendum, gli esponenti anti-renziani cavalcano un tema del quale conoscono perfettamente la “irresistibile leggerezza”, ma che in questo momento sognano di poter scagliare contro chi ha voluto quella legge, cioè il capo del loro partito. Incuranti che questo significhi, in prospettiva, spaccare le posizioni sindacali, riportare il Paese indietro di qualche anno, ricominciare a discutere su un argomento desueto. Ma soprattutto che ciò significa aver deciso, consciamente si spera perché se non se ne rendessero neppure conto sarebbe pure peggio, di non intervenire laddove ce ne sarebbe invece tanto bisogno: nel regolamentare la pratica del “voucher selvaggio”; nell’organizzare le reti di Centri per l’impiego; nel diffondere la cultura della formazione continua; nel sostenere i disoccupati nel loro percorso di reinserimento tramite le politiche attive per il lavoro e nel finanziare le politiche passive laddove esse possano eventualmente servire; nel puntellare le aziende nei mercati esteri; nel fare marketing per i nostri prodotti; nel collegare mondo dell’impresa e della ricerca; nell’aiutare le scuole e le imprese nella pratica dell’alternanza scuola-lavoro.
Quasi che aver perso il referendum avesse convinto tanti esponenti della maggioranza che adesso che la ricreazione è finita si può finalmente tornare a perdere (occasioni politiche ed elezioni) come ai bei tempi. Eh sì, forse forse (“a pensar male” diceva il divo Giulio …), si stava meglio quando si stava all’opposizione!