«I confini di questo contratto unico non sono ancora stati precisati, però genericamente si intende una tipologia di contratto unitaria che sostituisca tutte le varie forme dei cosiddetti contratti atipici, che sono varie decine, come quelli a progetto, a termine, di stage o di apprendistato». IlSussidiario.net si è rivolto all’avvocato Cesare Pozzoli, esperto di diritto del lavoro, per commentare le parole del ministro del Welfare Elsa Fornero, secondo cui è necessario eliminare i contratti da precari, modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e instaurare il cosiddetto contratto unico con cui, spiega appunto Pozzoli, «si intende un’unica forma contrattuale che valga per tutte le tipologie di rapporto lavorativo, semplificando le numerose forme contrattuali, anche se questa definizione è generica e dovrà essere opportunamente chiarita e precisata in sede di eventuale approvazione legislativa».
Secondo lei il contratto unico può essere la soluzione contro la precarietà?
Ritengo che il “contratto unico” potrebbe essere un modo per semplificare e snellire una “giungla” di contratti obiettivamente eccessiva, anche se talune tipologie contrattuali, penso all’apprendistato, sono state recentemente modificate e potrebbero avere un grande valore, specie per quanto riguarda l’occupazione giovanile. Il tema della “precarietà” si pone su un piano diverso e dipende da come nel nuovo “contratto unico” verranno previste le tutele in caso di licenziamento: se verrà eliminato l’articolo 18 che tutela in maniera abnorme solo alcuni dipendenti delle aziende più grandi e verrà introdotta una tutela intermedia valida per tutti i lavoratori – anche per i c.d. “lavoratori atipici” che attualmente hanno scarse tutele – la nuova disciplina potrebbe in un certo senso arginare la precarietà.
Cosa pensa riguardo all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la presa di posizione dei sindacati?
Credo che il ministro Fornero abbia ragione quando dice alla Cgil di non guardare a questo articolo “come un totem”, perché non lo è. Sono in tanti ormai a dire già da tempo – anche nell’area storica della sinistra – che l’articolo 18 debba essere riformato, e ora occorre finalmente vedere se si avrà il coraggio di farlo, come ritengo necessario. Anche la Bce, nella celebre lettera “riservata” dell’agosto del 2011, ha ricordato che è necessaria una semplificazione delle modalità di entrata e di uscita dal mercato del lavoro. Del resto, come è noto, in Italia circa un terzo dei lavoratori è ipertutelato grazie all’articolo 18 in una misura unica al mondo; un altro terzo dei lavoratori (quelli occupati in aziende con meno di 16 dipendenti, normalmente non sindacalizzate) ha una tutela di carattere economico molto inferiore, e infine un ulteriore “terzo” di “lavoratori precari” ha ancor meno tutele: procedere quindi verso una maggiore equiparazione tra tutti i lavoratori è doveroso, e in linea con il principio di eguaglianza stabilito dalla nostra Carta Costituzionale e con quello di “equità e di eliminazione dei privilegi” più volte ostentato (in verità finora più con proclami che con atti conseguenti) dal nuovo Governo. Al riguardo è molto importante il tema degli ammortizzatori sociali, perché queste riforme devono accompagnarsi a politiche di flexsecurity, cioè di adeguata tutela in caso di licenziamenti e disoccupazione, come del resto avviene nella maggior parte dei Paesi europei. E ciò vale ancor più in un sistema in cui, tra pochi anni, si dovrà lavorare fino a 70 anni.
Secondo la Cgil per combattere la precarietà occorre intervenire cancellando nei fatti tante forme di lavoro precario intervenendo sul costo, facendo costare di più il lavoro precario rispetto a quello a tempo indeterminato. Cosa ne pensa?
Non credo che appesantendo ulteriormente i costi e gli oneri delle forme di lavoro precario si favoriscano la competitività e le assunzioni. Per fare un esempio, le “vecchie” collaborazioni coordinate e continuative, oggi diventate “collaborazioni a progetto”, che costituiscono indubbiamente la forma contrattuale “precaria” più utilizzata, fino al 1996 non prevedevano contributi previdenziali. Negli ultimi anni la situazione è cambiata, e con l’ultima manovra i contributi previdenziali sono arrivati al 28%, quindi sempre più vicini a quelli del rapporto di lavoro subordinato. Eppure ciò non ha portato a maggiori assunzioni. Insomma, se le varie tipologie di assunzione vengono appesantite, gli imprenditori probabilmente non assumeranno più. Il vero tema è prevedere forme contrattuali utili che rispondano realmente alle esigenze del mercato del lavoro. In questo senso 20 o 30 tipologie di contratto sono troppe, ma al tempo stesso il “contratto unico” è troppo poco.
La Cgil crede inoltre che il contratto unico non serva perché un contratto formativo di ingresso per i giovani esiste già, ed è l’apprendistato riformato che dura solo tre anni ma che non viene usato. Può spiegarci?
Il rilancio dell’apprendistato non dipende solo dalla Legge, che è stata adeguatamente riformata pochi mesi fa dal Ministro Sacconi di concerto con le organizzazioni sindacali. Dipende anche dalle parti sociali e quindi dai sindacati, dalle Regioni e dagli Enti formativi, come dimostrano alcuni esempi virtuosi, penso in particolare alla Regione Lombardia. La partita è quindi in mano anche alla società e non solo al Governo o al Legislatore, e se i soggetti sociali opereranno correttamente c’è tutto lo spazio per rilanciare l’occupazione giovanile attraverso l’apprendistato. In questo ognuno deve fare la sua parte. Temo però che dietro il tormentone del “contratto unico” ci sia il tentativo surrettizio di non affrontare apertamente il problema dell’articolo 18, che non sta più in piedi, e di farlo indirettamente attraverso questo espediente. Da questo punto di vista, sarebbe meglio essere trasparenti e dichiarare le vere finalità perseguite, anche perché le forme contrattuali ormai ci sono e hanno trovato dal 2003 – quando è stata promulgata la c.d. “legge Biagi” – a oggi una loro stabilizzazione dopo tanti anni di contenziosi giudiziali, Circolari esplicative e chiarimenti in sede di Contratti Collettivi. E allora, perché sopprimerle tutte per introdurre il “contratto unico”?
(Claudio Perlini)