Anni fa le grandi manifestazioni studentesche erano anticipate da più o meno affollate assemblee negli istituti ove i promotori della movimentazione esponevano le loro ragioni e provavano a coinvolgere i propri coetanei nella marcia di protesta o nell’occupazione, augurandosi un’adesione convinta e non giustificata dalla mera perdita delle ore di lezione. Capitava che in quelle assemblee qualcuno si alzasse e, coraggiosamente, presentasse contro-argomentazioni al pensiero dominante, aiutando tutti i presenti a riflettere in profondità e, soprattutto, con la propria testa e non con quella del partito, del sindacato o del parroco.
Non so se ancora esistano assemblee di questo genere, se siano partecipate e, soprattutto, se ci sia ancora qualcuno così razionalmente matto da prendere la parola per sviluppare ragionamenti disallineati. Certo, la piattaforma scritta dall’Unione degli studenti per proclamare lo “sciopero della alternanza” programmato per oggi su tutto il territorio nazionale bene si presterebbe a diventare campo di confronto tra ideologia e realismo.
Da una parte certamente, quella degli scioperanti, stanno le argomentazioni a favore di esperienze di alternanza pedagogicamente valide, integrate col piano di studi, sicure e realmente formative. È indubbio che l’improvviso obbligo all’alternanza tra scuola e lavoro introdotto ex lege da La Buona Scuola (che concretamente ha significato la moltiplicazione in due anni da 200.000 a 1.500.000 studenti in alternanza!) ha comportato una rincorsa al tirocinio curriculare caratterizzata da logiche “tanto al chilo” più che da finalità educative.
D’altra parte, però, è davvero inaccettabile la definizione di alternanza scuola lavoro come momento di sfruttamento gratuito del capitale sullo studente predicate da tanti replicatori del politicamente corretto, da Maurizio Crozza a Diego Fusaro, dalla Fiom a Massimo Gramellini. L’elevazione a regola di singoli episodi negativi (che certamente ci sono e vanno contrastati) è una tradizionale tattica per screditare tanto le persone quanto i processi culturali e sociali. In questo caso si sta davvero buttando il bambino con l’acqua sporca.
L’alternanza formativa, infatti, anche legalmente, è innanzitutto un metodo e non uno strumento (ovvero una tipologia contrattuale o un dispositivo didattico). È, in fondo, il metodo dell’esperienza maestra di vita: la formazione integrale della persona non può essere una dimensione solo teorica, ma deve comportare anche l’emersione di competenze personali di natura pratica, manuale, operativa. Così intesa, non è quindi solamente un’opzione, ma addirittura una strategia necessaria per contribuire a formare giovani capaci di pensare e di agire, di astrazione e di concretezza: insomma completi e non parziali.
Tralasciando la malizia politica o il pregiudizio culturale di alcuni opinion-leader, a cosa è allora dovuta la diffusa percezione negativa, tra gli studenti, dell’alternanza? In larga parte alla sbrigativa spiegazione che è stata data loro dai docenti. Scrive l’Unione degli studenti che «non dobbiamo precocemente entrare nel mercato del lavoro solo perché qualcuno ha deciso sulle nostre vite» e che «le nostre scuole non devono essere specchio dei fallimenti del mercato». È verissimo. L’alternanza tra scuola e lavoro, infatti, non è una politica attiva o uno stratagemma utile al contrasto della disoccupazione giovanile (come pure pare predicare l’Unione europea!), bensì una leva necessaria per realizzare percorsi formativi coerenti e compiuti nei quali si integrino attività formative di aula ed esperienze di lavoro finalizzate alla maturazione della persona.
Non si va in alternanza per lavorare gratis (ammesso, ma non concesso, che un sedicenne che mai ha visto un luogo di lavoro sia in grado di portare realmente un contributo produttivo…), né per passare qualche settimana “diversa”, ma perché l’apprendimento situato è necessario alla formazione tanto quanto le ore di italiano e filosofia svolte in classe.
Potessi prendere parte a una di quelle rumorose assemblee di istituto suggerirei agli studenti di confermare la manifestazione, cambiando però la piattaforma: non contro l’alternanza-sfruttamento, ma contro gli insegnanti incapaci di comunicare la bellezza del lavoro nonostante la fatica, il fascino di vivere la vita intensamente oltre i comodi slogan, una definizione di lavoro non ridotta solo al contenuto giuridico e sindacale. Per capire tutto questo molto meglio uscire dalle aule e incontrare il mondo “fuori”. Magari qualche professionista contento o qualche imprenditore ingegnoso. Magari proprio grazie all’alternanza.
Twitter @EMassagli