Il 2016 del mercato del lavoro è stato caratterizzato dall’applicazione del Jobs Act. La rassegna stampa dell’anno passato è scandita dai commenti agli andamenti mensili e trimestrali dei dati forniti da Inps e Istat. Commenti spesso tesi a ricercare nei dati un sostegno a tesi politiche preconfezionate. Se il segno per l’occupazione era il più allora andava tutto bene per una parte e altri cercavano nella crescita di disoccupati o inattivi le ragioni delle loro apposizione. Se il segno era negativo, si invertivano le parti.
A fine anno i risultati ci dicono quanto da tempo l’economia sta indicando in tutto l’Occidente: la ripresa economica è debole, le riforme del mercato del lavoro hanno aiutato a contenere la disoccupazione, ma per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi occorrono politiche economiche più espansive. Anche per l’Italia questo è il panorama illustrato dai dati dell’ultimo trimestre 2016. In più noi scontiamo specifici problemi strutturali. Giovani, donne e mezzogiorno hanno tassi di occupazione troppo bassi e richiedono politiche di tutela specifiche per sostenerne l’occupazione. Per questo il tema che dovrebbe essere visto come prioritario per il 2017 è l’avvio definitivo della gamba principale introdotta dal Jobs Act: la rete dei servizi al lavoro.
Con questa parte della riforma del mercato del lavoro si è costruita anche in Italia una rete di servizi pubblici e privati finalizzata a prendere in carico chi è in cerca di lavoro. I nuovi servizi, utilizzando sia gli strumenti passivi del sostegno al reddito, sia quelli delle politiche attive, sono valutati sulla capacità di reinserimento lavorativo e fanno leva anche sulla proattività della persona che si impegna a ricercare attivamente nuove opportunità di lavoro.
Nell’anno passato si è perso troppo tempo per organizzare il nuovo sistema nazionale. Il blocco venuto dal No al riforma costituzionale impone di ricercare un metodo di condivisione con le Regioni. Ciò non può però diventare un nuovo alibi per far sì che la burocrazia ministeriale rinvii l’avvio del sistema, il quale deve assicurare in tutto il Paese un livello comune di servizi al lavoro. È in questo nuovo ambito di rete di servizi che i target più svantaggiati possono trovare lo spazio per politiche mirate a sostenerne percorsi privilegiati per l’occupazione.
Prioritario è lo sviluppo della sperimentazione del sistema duale per l’inserimento dei giovani al lavoro. La rete di formatori e servizi al lavoro può contare per questo sui nuovi contratti di apprendistato. Normalmente si pensa all’apprendistato per l’inserimento al lavoro di giovanissimi. I tre livelli permettono invece di attivare percorsi formativi declinati fra scuola e lavoro per giovani fra i 15 e i 29 anni. Assicurano l’acquisizione di professionalità e la certificazione di livelli scolastici, fino alla laurea triennale. Dove tale sperimentazione è stata fatta si sono ottenuti effetti occupazionali significativi: oltre il 50% dei percorsi si è concluso con l’assunzione, con punte fino all’80% dei frequentanti. Si è così risposto anche alle esigenze di percorsi formativi ad hoc per figure professionali non previste dai percorsi scolastici tradizionali.
Anche il sostegno all’occupazione femminile e ai disoccupati di lunga durata richiede misure ad hoc. Non si tratta di varare nuovi interventi legislativi, ma soprattutto di avviare politiche, utilizzando gli strumenti creati dalla riforma.
Il Jobs Act ha sofferto sicuramente di una narrazione che ha teso a volerlo misurare sugli effetti occupazionali. Il ritardo nella partenza dei nuovi servizi previsti ha accentuato questa distorsione. Nel nuovo anno non c’è bisogno di rimettere mano a strumenti legislativi se non per correggere o rivedere alcuni di essi che sono risultati distorti. Come dovrebbe essere normalmente, il governo ha l’obbligo di concentrarsi sull’applicazione delle politiche previste dagli atti legislativi approvati dal parlamento e garantire l’universalità dei benefici previsti.
Ciò richiede anche un impegno a definire una nuova governance che presieda alle politiche. I corpi intermedi rappresentanti degli interessi di imprese e lavoratori dovrebbero essere impegnati non in sedi di concertazione o contrattazione legislativa, ma a condividere la gestione dei servizi nella selezione delle priorità (giovani e donne oppure anziani e giovanissimi o solo al sud e così via) e a valutare gli strumenti più appropriati da usare. Alla politica economica toccherà poi creare le condizioni per un percorso di crescita e sviluppo che assicuri l’aumento occupazionale complessivo.
L’avvio del nuovo anno non si presenta però così lineare come vorremmo. Sui temi del lavoro pesa la scadenza del referendum promosso dalla Cgil che, qualora giudicato ammissibile, prevede l’abolizione di tre norme importanti della riforma. I quesiti del referendum, se approvati, cancellando quanto previsto sull’art. 18 non solo lo reintroducono, ma ne estendono gli effetti anche alle imprese sotto i 15 dipendenti. Con il secondo quesito puntano ad abolire i voucher per il lavoro accessorio e infine ristabiliscono vecchie regole di tutela dei dipendenti in caso di sostituzione dell’impresa in situazioni di appalto pubblico.
Senza entrare adesso nel merito dei singoli punti è chiaro che dietro i quesiti del referendum vi è una concezione del lavoro diversa dalla cultura espressa nel Jobs Act. La trasformazione del sistema economico e gli effetti della digitalizzazione hanno trasformato il lavoro nell’industria e nei servizi. Una nuova flessibilità e nuove professionalità sono la base della nuova organizzazione del lavoro. Ciò non deve diventare nuova precarietà. La difesa del capitale umano e gli investimenti in formazione sono la base per tutelare i lavoratori. Ma servono anche nuove norme per migliorare le tutele di lavoratori impegnati a condividere le trasformazioni in atto.
Le garanzie del periodo caratterizzato da un lavoro per tutta la vita non funzionano più per tutelare lavoratori che cambieranno occupazione e professionalità più volte nell’arco della loro vita lavorativa. Questa sfida riguarda tutti e sarà ancora più evidente nell’anno in cui dovranno avviarsi i servizi al lavoro. Se dovesse prevalere la concezione della difesa del posto fisso torneremmo al periodo degli uffici di collocamento. La via della difesa del lavoro passa ora attraverso la sfida di nuove tutele e servizi che si facciano carico dei cambiamenti in corso.