Si sta, via via, delineando la forma che assumerà il nuovo mercato del lavoro. Discernendo tra le varie proposte in campo, sembra che il governo si stia sempre più convincendo della bontà di alcuni provvedimenti rispetto ad altri. In particolare, pare sempre più indirizzato verso l’introduzione di un contratto unico o, per meglio dire, “prevalente”; è allo studio, inoltre, un’indennità di reinserimento, pagata al 90% dall’Inps e al 10% dall’azienda, con una maggiorazione per le imprese con l’aumentare degli anni. Il tutto, in via sperimentale, e su base volontaria; saranno le regioni, i virtù di accordi quadro, a decidere se aderire o meno al progetto. Secondo Marizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano raggiunto da ilSussidiario.net, «occorre fare chiarezza su scopi e soluzioni delle misure di cui si sta parlando, perché nell’opinione pubblica non si creino false illusioni». Quindi, «l’ipotesi che sembra raccogliere maggiore consensi è quella della creazione di un contratto a tempo indeterminato per i neoassunti, della durata di tre anni, in cui non varrebbero le tutele dell’articolo 18; si tratterebbe di un periodo di prova allungato, dove il lavoratore sarebbe licenziabile».
Il proposito dell’esecutivo è quello di incentivare la assunzioni attraverso un alleggerimento, per il datore di lavoro, dei vincoli in uscita in questo periodo. «La mia impressione – continua Del Conte – è che si stia facendo grande confusione circa gli obiettivi da perseguire. Tutti dicono che si vuole incrementare l’occupazione. Eppure, nessuno è stato in grado di sostenere che una manovra di questo genere possa aumentare lo stock di occupati, né esistono ricerche scientifiche che dimostrino come laddove siano stati introdotti contratti di questo tipo, si sia verificato un tale aumento». Il bersaglio, forse, è un altro: «È molto più probabilmente quello dell’equità e del superamento del dualismo del mercato del lavoro, tra gli outsider e gli insider. Ci sono, infatti, una serie di regole, che si applicano a una quota minoritaria dei lavoratori, che garantiscono svariate protezioni; ma la maggior parte degli occupati non gode di tutela alcuna».
I motivi sono noti: «Lavorano in aziende con meno di 15 dipendenti, dove l’articolo 18 non viene applicato, o hanno contratti atipici». Resta, inoltre, da capire, in cosa dovrebbe consistere effettivamente il cosiddetto contratto unico. «In tutti i disegni che si vanno prospettando, si tratterebbe di un ulteriore contratto che si aggiungerebbe a quelli esistenti; che, d’altronde, nessuno ha mai detto di voler abolire. Sono funzionali, infatti, al nostro sistema di imprese, talmente complesso da non potersi ricondurre sotto un unico cappello». Altro snodo cruciale, è quello relativo all’indennità di reinserimento. «Si tenta di compensare l’assoluta volatilità del periodo di prova con un sistema di ammortizzazione sociale che entri in gioco in caso di licenziamento».
Questo modello si ispira all’esperienza danese della Flexsecurity. «Ma – aggiunge Del Conte – non è in alcun modo riproducibile nel nostro Paese. Il cuneo fiscale, in Danimarca, infatti, è molto più alto che da noi. Al di là del costo del lavoro, la tassazione generale è tra le più pesanti al mondo. Inoltre, si tratta di un’economia fondata su circa 4 milioni di lavoratori, con un tasso di sindacalizzazione estremamente alto (circa l’80%) e un elevatissima coesione sociale». Una società molto piccola e omogenea, quindi. «E partecipativa, dove i sindacati prendono parte a gran parte delle scelte e operano un fortissimo controllo in materia di licenziamenti». Non vi è una sola caratteristica paragonabile all’Italia: «Da noi, il tasso di sindacalizzazione è solamente al 30%, scarseggiano le risorse finanziarie pubbliche e siamo al limite della pressione fiscale sostenibile per il nostro Pil e per il nostro sistema di competitività generale».
(Paolo Nessi)