Quale 2017 ci aspetta sul fronte del lavoro? Apparentemente, come sempre, un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce e quindi in questo scorcio di 2016 in molti analisti prevale la preoccupazione per quanto potrebbe accadere alle Acciaierie di Piombino, o ad Alitalia, o all’Ilva, o per le conseguenze del caso Almaviva. Sono tutte importanti aziende in crisi tanto profonde da mettere a rischio migliaia di posti di lavoro. Sono crisi croniche, che hanno lentamente tramutato problemi aziendali in gravi problemi sociali, ma che rischiano di non restare i soli.
Senza pessimismo, ma con qualche punta di realismo proviamo dunque a riflettere sui “grandi pericoli” che potrebbero correre alcune imprese italiane, più esposte di altre ai venti della globalizzazione, della crisi finanziaria, dell’incapacità manageriale, dei costi di produzione e così via.
Il primo nome che viene alla mente è proprio quello di Alitalia: dopo le grandi compagnie aeree europee, dopo i “capitani coraggiosi” nostrani, ci avevano provato anche gli arabi di Etihad, forti di una sconfinata potenza finanziaria e di immense liquidità da investire. Ma neppure loro sono riusciti a rilanciare questo storico marchio, che una volta era la compagnia di bandiera italiana. Sono ormai almeno 25 anni che sta attraversando un lento declino, un malinconico tramonto, come fosse una pacifica, lenta, fuori dal tempo e dalla realtà, balena che viene divorata da torme di squali, agili, affamati, pronti a sfruttare la prima delle leggi di natura, quella secondo cui il predatore sta in cima alla scala alimentare e la preda gli sta sotto.
Se neppure il 2017 vedrà questa compagnia aerea raggiungere i propri obiettivi di pareggio del bilancio, c’è una notizia che spiega meglio di ogni altro commento il punto in cui siamo arrivati: poco prima di Natale le banche-azioniste, Unicredit e Intesa Sanpaolo, hanno concesso un finanziamento di 120 milioni. Finanziamento a breve termine, come si dice in questi casi, e finalizzato all’avvio entro 60 giorni di un negoziato con i principali creditori e fornitori ma anche con i sindacati, per un radicale taglio dei costi. Solo così, infatti, i soci della compagnia hanno garantito che rimetteranno mano al portafoglio per finanziare l’ennesimo piano di rilancio di Alitalia. Tradotto dal cronachese, nei prossimi 60 giorni sul tavolo ci sarà da discutere di 1.500 possibili esuberi. Ma anche di taglio di salari.
Altro caso di rilevanza nazionale, se non altro per l’importanza numerica dei lavoratori coinvolti, è quello della Alcoa: dopo il passo indietro di Glencore, sindacati e Governo hanno ribadito l’impegno a intervenire, e come primo step sono stati confermati gli ammortizzatori sociali per i lavoratori di Portovesme, grazie all’inserimento del Sulcis tra le aree di crisi complessa. Nel contempo pare che alcune società svizzere abbiano manifestato interesse per il sito industriale: i prossimi mesi ci diranno se questo interesse era reale o solo tattico.
Dalla Sardegna alla Puglia: neanche a dirlo si parla di Ilva, e in una regione che sta attraversando un momento di forte crisi produttiva, come dimostra l’andamento della Cassa integrazione. Qui siamo, forse, ai titoli di coda, perché entro poche settimane si dovrebbe arrivare, ma il condizionale è d’obbligo, alla vendita dell’Ilva a una delle due cordate che si sono fatte avanti, quella di Arvedi-Jindal e quella di ArcelorMittal-Marcegaglia. Entrambe dovranno presentare i propri i piani industriali e le relative offerte economiche, ma anche, e questo è il delicatissimo punto, i piani di risanamento ambientale che dovranno rispettare i parametri suggeriti dagli esperti del Governo. Tutto potrebbe procedere per il meglio, ma la situazione è tanto fragile che i sindacati si sono già mossi chiedendo un tavolo di confronto.
Dall’industria al terziario e servizi? Se Atene piange Sparta non ride. Anzi, fiumi di lacrime si stanno riversando su settori che una volta era proverbialmente al riparo da ogni crisi e che invece oggi sembrano attraversare l’occhio del ciclone. Prendiamo i grandi gruppi bancari. Caso “Monte dei Paschi”: l’immissione di liquidità significa solo aver evitato un caso Lehman Brothers in salsa toscana. Ma sullo sfondo si staglia il pericolo di ristrutturazioni pesanti, di tagli al personale e chiusura di filiali. Non che negli altri Istituti di credito si parli di assunzioni massicce: certo qualcosa si muove, ma a fronte di 1.200 tagli si fanno 200 assunzioni, spalmate su diversi anni e con contratti misti: i nuovi assunti, infatti, si vedono proporre part-time verticali per tre giorni alla settimana, e per gli altri due contratti come promotori finanziari.
I manager bancari parlano di almeno 100mila posti di lavoro di troppo: esagerazioni, probabilmente. Ma certo se vi è un settore che non sarà al riparo da interventi massicci di ristrutturazioni aziendali, in questo 2017 che pur non si vorrebbe troppo “leopardiano”, sarà quello delle banche.
Né meglio va l’informazione. Cosa succederà a Mediaset, l’amata-odiata creatura berlusconiana, di volta in volta giudicata bieco strumento di potere del “Trump di Segrate” o eccellenza del Made in Italy? A dicembre, la francese Vivendi ha dato la scalata al gruppo del Biscione, arrivando dal 3% a un passo dal 30% del capitale e, quindi, a un soffio dall’obbligo di Opa. L’obiettivo dichiarato del gruppo francese è quello di giungere a un accordo per creare un polo europeo anti-Netflix, ma il punto di vista della famiglia Berlusconi è ben diverso, e ancora restano da definire e valutare le ricadute di questa battaglia sul piano del personale. Di sicuro l’immissione di liquidità in Borsa rischia di sottrarre denaro a investimenti e produzione.
Verso la Borsa filano anche i Frecciarossa: le Ferrovie dello Stato, forti dei risultati record del 2016 con utili a 800 milioni e ricavi sopra i 9 miliardi, hanno deciso che entro il 2017 quoteranno le Frecce, gli intercity e i servizi a lunga percorrenza di Trenitalia. Per i treni locali, i pendolari, i regionali e tutto il resto del mondo più che la Borsa si prospetta paziente attesa di un treno nelle tante stazioni da ristrutturare, o amabili e interminabili colloqui con i vicini sul panorama che si gode mentre si aspetta che il treno riprenda la sua “corsa” dopo la consueta sosta fuoriprogramma nel mezzo delle amene campagne italiche. Il tutto a fronte di richieste, per ora solo sussurrate, di ulteriori esuberi.
E poi oltre a queste grandi vertenze al Mise, il ministero dello Sviluppo economico, sono aperti ben 145 tavoli tra azienda e sindacati per partite industriali o finanziarie minori ma non minime. Bastano allora questi annunci di disgrazie attese a farci dire che il 2017 sarà un anno di crisi? No, intanto perché per ognuno dei dossier di cui sopra, non lo si dimentichi, ci sono ancora margini di soluzione. Poi perché, come sempre, accanto a un albero che cade o che scricchiola, c’è una foresta che cresce, lenta, silenziosa, ma decisa a farsi spazio.
Se poi Madre Natura, nel caso di specie il nostrano Governo Gentiloni, decide di prendere in mano qualche dossier, di intervenire per tagliare il costo del lavoro, facilitare il credito, sostenere il commercio estero, diminuire le tasse sulle imprese, beh allora la foresta di cui sopra potrebbe davvero crescere a ritmi tali da coprire il rumore degli alberi che crollano con il silenzio delle piante di germogliano.
Buon anno a tutti gli arbusti.