La nuova manovra economica del governo Renzi presenta alcune scelte di fondo in continuità con l’impostazione delle scelte operate già nell’anno passato. Contro una tradizione dirigistica della sinistra, la scelta di fondo delle opzioni economiche decise dal governo punta su una diminuzione della tassazione per rilanciare consumi e investimenti. I bonus a sostegno dei consumi delle famiglie confermano la linea degli 80 euro restituiti già l’anno scorso. Si aggiunge la cancellazione delle tasse sulla prima casa (riguarda oltre il 70% dei nuclei famigliari italiani) e una misura sul canone Rai che, al di là delle scelte di fondo sulla televisione pubblica, va nel senso di pagare meno ma pagare tutti. Per le imprese la manovra tocca direttamente la defiscalizzazione a sostegno degli investimenti e rinvia altri tagli fiscali dopo la verifica dei conti da parte europea.
La scelta di fondo è confermata dalla copertura che dovrà trovare nell’espansione di consumi e investimenti la certezza di un percorso di crescita del Pil all’1,5% anno, con conseguente allentamento dei vincoli europei sul debito e sul peso della spesa pubblica. Se vogliamo trovare una parte ancora timida e parziale nelle opzioni che erano sul tavolo, si rileva come i tagli alla spesa siano ancora contenuti rispetto alle aspettative. Prevale la redistribuzione immediata a consumi e investimenti degli allentamenti dei vincoli derivanti dalla ripresa della crescita, ma va detto che un ulteriore rilancio del Pil può derivare da tagli nella spesa della Pubblica amministrazione.
Non si tratta semplicemente di operare con le forbici, ma di scegliere di diminuire l’intermediazione della Pa che frena lo sviluppo del mercato nei servizi locali. Il taglio di tante imprese pubbliche locali aprirebbe nuovi spazi per la nascita di nuove realtà imprenditoriali e libererebbe risorse destinabili a investimenti infrastrutturali. Decisioni più drastiche sul settore pubblico, abbinato alla riforma della Pa per ora solo avviata, darebbero nuove opportunità di crescita economica e faciliterebbero anche un reale processo di mobilità negli occupati in settori della Pa destinati a chiusura.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro e l’occupazione si è scelto di mantenere le misure di sostegno ai nuovi contratti limitando però la spesa. Come noto, l’anno scorso si decise una misura di decontribuzione per le assunzioni con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. Scelta eminentemente politica che prevedeva un sostegno triennale del valore di oltre 8.000 euro per ogni assunto con la nuova forma contrattuale. Favorire il passaggio da contratti instabili al nuovo contratto a tempo indeterminato resta uno dei principali obiettivi del Jobs Act. Con le nuove misure permane il sostegno economico, ma diventa biennale e subisce un taglio del 60%. Il contributo scende così sotto i 4.000 euro.
Il problema di mantenere tale misura occupazionale era eminentemente economico, ossia di onerosità. L’efficacia misurata nel corso dei mesi passati è fuori discussione: quasi due milioni di contratti sono stati avviati nella nuova forma a tempo indeterminato e il tasso di utilizzo anche per i neo assunti (ossia al netto della trasformazione contrattuali) è stato positivo. Dopo anni in cui calava continuamente la percentuale di assunti, nuovi o per trasformazione contrattuale, con contratto a tempo indeterminato, tutto ciò è positivo. Significa più lavoratori con contratti a maggiori tutele rispetto a prima ed era un obiettivo politico dichiarato.
I fondi stanziati per il 2015 sono stati però assorbiti in un tempo più rapido del previsto. Da qui la scelta di prevedere la continuità della misura, ma limitando l’onere economico. O meglio, contenendone il valore procapite, cercare di estendere la platea dei beneficiari.
Ciò risponde a due osservazioni. La ripresa economica con una conseguente ripresa della domanda di lavoro è in atto da oltre sei mesi. È ancora debole, ma sembra proseguire il trend positivo. La nuova legislazione ha portato a incrementare i contratti a tempo indeterminato anche se il tempo determinato rimane il contratto più utilizzato per gli inserimenti lavorativi. Con la fine del 2015 non sarà più possibile rinnovare molti contratti a progetto. Sopravviveranno solo i reali contatti coordinati e ci sarà quindi una migrazione significativa (almeno 900.000 cambi contrattuali in previsione) fra forme contrattuali. Da qui la scelta di mantenere una misura economica per favorire le nuove forme contrattuali, ma con un significativo risparmio sui valori di contributo alle imprese.
Si vedrà quindi nei prossimi mesi se la nuova domanda di lavoro si manterrà perché le imprese sono tornate ad avere fiducia nella crescita o se i nuovi contratti per le assunzioni hanno subito l’effetto drogato della decontribuzione del 2015 che era sicuramente a livelli allettanti. La valutazione di quale forma assumeranno i tanti contratti a progetto in scadenza con l’anno in corso ci dirà se i nuovi contratti sono realmente apprezzati dalle imprese e se si è rafforzata la fiducia nella crescita economica avviata.
Con impatto minore si sono introdotte misure a sostegno dell’uso del part-time per occupati anziani negli ultimi anni lavorativi prima del pensionamento. Anche in questo caso il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto. Decidere per una flessibilità in uscita è stato valutato troppo costoso. Ma una misura per favorire il part-time negli ultimi anni lavorativi è comunque utile per rompere una rigidità ideologica contro questo contratto di lavoro a lungo penalizzato nel nostro Paese. Così si introduce in modo strutturale una misura utile. La capacità di liberare nuove risorse permetterà poi di rendere ancora più flessibili i percorsi di scelta individuale per le uscite dal mercato del lavoro.