Era sufficiente accostare due termini per distillare la panacea di ogni male; ovvero, il contratto unico. Non si parla d’altro. Domina il dibattito sulla riforma del mercato lavoro, quasi avesse un potere taumaturgico. Secondo la versione che va per la maggiore, consterebbe di due fasi; nella prima, che non potrebbe durare più di tre anni, non si avrebbe diritto alle tutele del tempo indeterminato e, se licenziati, si potrebbe rivendicare solamente un indennizzo. Nella seconda, scatta l’assunzione a tempo indeterminato vera e propria. Lo chiamano contratto unico di inserimento e si accompagnerebbe all’ipotesi di rendere i contratti a termine un lusso per le aziende, non erogabili sotto i 25mila euro lordi annui. Eppure, c’è anche chi non nasconde che tutto ciò ricorda una cosa che già esiste, il contratto di apprendistato.
Paola Olivelli, professoressa di Diritto del lavoro presso l’Università di Macerata, raggiunta da ilSussidiario.net affema di essere tra questi. E premette: «Con l’ultima riforma del 2011, il cosiddetto Testo unico, credo che il contratto di apprendistato, relativamente all’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, svolga la sua funzione in maniera assolutamente adeguata, in ciascuna delle tre forme per le quali è previsto; ovvero: l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di formazione e istruzione, quello professionalizzante e quello relativo ai percorsi di alta formazione. Certo, deve essere impiegato correttamente, per fornire effettivamente formazione, e non per avere forza lavoro a basso costo».
Il contratto unico, invece, lascia la professoressa alquanto perplessa. «Come è possibile pensare di ridurre le oltre 40 forme contrattuali previste dal sistema italiano a una soltanto? Oltretutto, si tratterebbe dell’ennesimo contratto a termine, proprio quello che l’ipotesi di riforma intende superare». Luca Solari, su queste pagine, affermava che «ci saranno molti casi in cui forme di contratto a termine non condurranno all’assunzione mentre, se non ci sarà un’adeguata forma di controllo, si ritramuteranno in forme non regolate, come le partite Iva o il lavoro in nero». Secondo la Olivelli, «se è vero che questi contratti determineranno costi per le aziende troppo alti, si tornerà al punto di partenza, con le piccole e medie imprese che non saranno in grado di assumere. Si tratta, in fondo, di strategie per aggirare l’articolo 18. Ma non è questo il metodo». Del resto, «ci si troverà – continua -, alla fine, con un gruppo di persone soggette a licenziamento, e un altro gruppo che non avrà di questi problemi». Un paradosso, dato che, oggi, la priorità è un’altra: «Andremo sempre più incontro a un mercato connotato dalla flessibilità. Perché questa non diventi semplicemente precarietà, occorre sanare la frattura esistente tra outsider e insider, tra chi non ha alcune tutela e chi gode ancora di immensi privilegi».
In molti sostengono che sarebbe sufficiente espandere i campi d’azione dell’apprendistato per ottenere il tanto discusso contratto unico. «È vero. In particolare, sarebbe opportuno estenderlo nella sua forma professionalizzante. I giovani, anche se laureati, hanno, infatti, necessità, anzitutto, di imparare un lavoro e a rapportarsi con le dinamiche di un’azienda. Questo li rende persone in grado di continuare a stare sul mercato del lavoro in maniera appetibile. Ed è l’unico processo in grado di tutelarli dalla sempre maggior flessibilità cui si andrà inevitabilmente incontro».