La battuta del viceministro del lavoro Martone ha provocato un vero polverone. Dovuto, forse, più a quella parolina “sfigato” che alla vera sostanza del rilievo. Segno che, quando facciamo battute, dovremmo sempre tenere a mente le diverse situazioni. Pensiamo, ad esempio, agli studenti-lavoratori, ai loro sforzi e al valore aggiunto del connubio tra studio teorico ed esperienza concreta di vita. Che pochi giovani oggi, carichi magari di un bel 110 e lode, hanno. Ciò che però mi ha colpito in molti commenti è stato, in troppi casi, avere confuso il dito con la luna. Perché resta comunque vero che laurearsi a 28 anni, da parte di giovani dediti totalmente allo studio, resta comunque un risultato di cui non andare fieri. Per questi motivi vorrei proporre, con queste righe, un ritorno di riflessione su quella battuta, cercando di cogliere al volo il cuore del rilievo.
Già resta un problema, da noi purtroppo non ancora risolto, che i nostri ragazzi escano dalle scuole superiori a 19 anni, contro i 18 degli altri paesi, con studenti stranieri che si laureano a 21 anni (triennale) e a 23 anni (specialistica); se poi mettiamo in conto i fuoricorso, è difficile non essere d’accordo con Martone. Anche se l’introduzione della riforma 3+2 (1999-2001) ha in effetti abbassato l’età media, come ha mostrato la recente ricerca della Fondazione Agnelli.
Il vero dato, però, che dovrebbe far riflettere, è la percentuale dei laureati sugli iscritti alle diverse facoltà universitarie italiane: a oggi siamo al 55%, ma a ingegneria siamo, ad esempio, al 65%. Non solo: resta la domanda sulla qualità e tipologia delle lauree, perché non hanno, nel concreto, tutte lo stesso valore. Nel senso di reali sbocchi occupazionali, non del solo possesso di un pezzo di carta qualsiasi. Se Martone avesse detto: “Chi a 28 anni non è ancora laureato sbaglia, perché la concorrenza interna e internazionale finirà per travolgerlo”, nessuno, forse, avrebbe avuto nulla da ridire. Se poi teniamo a mente il numero dei disoccupati under 30 (quasi il 30%), abbiamo di che preoccuparci tutti. Oltre le polemiche di giornata.
Il nuovo decreto legge, ad esempio, sulle semplificazioni doveva in prima battuta affrontare anche il tema dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Vedremo se Monti avrà coraggio su questo punto. Finalmente, però, anche in questi contesti si può parlare di qualificazione e competitività. Solo un primo passo, ma significativo. In poche parole, i voti peseranno di meno nelle graduatorie e conteranno di più le prove, cioè il merito effettivo. Del resto, che sia finito il tempo del pezzo di carta, ce lo diciamo tutti. Perché è la realtà del merito, delle competenze cioè di continuo aggiornate, che deve avere la primogenitura.
Ce lo diciamo tutti, eppure finora non si è fatto niente, a parte questa novità del governo Monti. Resta un altro atto di coraggio che questo governo, vincolato solo “al principio di verità”, dovrebbe compiere, oltre alla definitiva abolizione del valore legale dei titoli di studio e alla maturità a 18 anni, com’è negli altri Paesi. Rendere effettiva la pari opportunità inter-generazionale, senza più scaricare sui giovani le contraddizioni non-risolte dei loro padri. Ha ragione su questo punto Giulio Tremonti: i giovani dovrebbero votare due volte, avere cioè due voti a disposizione, per cambiare le regole del gioco e l’accesso reale a un mercato del lavoro.
Anche questi problemi aperti ci dicono come, soprattutto in Italia, domini ancora oggi una temperie segnata da una “evasione dai problemi di fondo”. Che né partiti, né sindacati riescono più a proporre come valori di riferimento. Per questi aspetti, il “governo tecnico” sta facendo più in pochi mesi dei “governi politici” negli anni passati. Resta il grande tema dell’effettività equità, tema che coinvolge tutti. La cornice dell’equità, direi di più, è la condizione di “senso” prima delle richieste di sacrifici, anche delle stesse riforme o norme sulla crescita. Vorrei, perciò, che si parlasse più spesso di bene comune, di giustizia, di competenza e di merito, di bene comune; in poche parole, altri modi per invocare un valore poco presente, nel nostro modo di vivere, cioè il “principio di responsabilità personale”.
Mentre invece continuano a dominare le logiche corporative, chiuse, tese a garantire i garantiti, a conservare privilegi scambiati per diritti: aspetti questi che stanno costringendo sempre più persone al distacco da una solidarietà di fondo, da una condivisione dei comuni destini. Oggi si parla di solidarietà, ma forse è una parola vuota in troppi casi. Fino a pochi anni fa le parole chiave egualitarismo e redistribuzione erano viste come sinonimi di solidarietà. Oggi non è più possibile, perché hanno prodotto caste chiuse, corporazioni, irresponsabilità, disinteresse al bene comune… Le parole chiave, in prima battuta, oggi sono altre: talento e merito, cioè solidarietà nella responsabilità. La parabola evangelica dei talenti, che vale più di intere biblioteche di pedagogia, dovrebbe diventare quasi una lettura quotidiana. Come sprone alla piena valorizzazione di capacità e di responsabilità, oltre i muri chiusi degli ordini professionali, di leggi e leggine corporative, quelle che hanno prodotto un concretissimo conflitto generazionale: una società nelle mani dei vecchi e i giovani di talento costretti a lavoretti e a un lungo precariato. L’età media dei ricercatori è di 40 anni, degli insegnanti 53 anni, quella dei presidi 61, senza dimenticare l’età giurassica dei docenti universitari, degli stessi componenti dei cda delle nostre aziende, delle società quotate in borsa, delle istituzioni dello Stato. Insomma, un mondo vecchio, chiuso…
La vera rivoluzione socio-politica è rimettere in moto gli ascensori sociali, quindi la forza motivazionale dei nostri giovani migliori. Che cosa manca? Manca la valutazione, manca il merito, manca la selezione dei migliori. Oggi non ha più senso pretendere il posto fisso sotto lo Stato solo perché si ha un pezzo di carta in mano: all’università Federico II di Napoli ci sono più studenti in giurisprudenza di tutte le università francesi, alla Statale di Milano gli iscritti al primo anno in Scienze della Comunicazione sono più di tutti gli iscritti delle facoltà scientifiche e tecniche. Quale futuro occupazionale? Come aiutare i giovani a scelte concrete? In Italia oggi ci sono 26.000 ricercatori: alcuni bravissimi, altri meno. Perché non dire queste cose? Solo la metà hanno pubblicazioni scientifiche rilevanti, come dicono gli istituti di ricerca specializzati.
Da preside di una grande scuola superiore non posso, ad esempio, gestire il personale docente come già avviene in altri paesi europei. Eppure i ragazzi e le famiglie hanno sacrosanto diritto a incontrare i migliori docenti, veri “maestri”. E nella scuola ce sono tanti di “maestri”, ma non riconosciuti. Coloro che formeranno le nuove generazioni. Un’enorme responsabilità.
Eppure, ogni tanto qualche buona notizia compare all’orizzonte. Ricordo solo, tempo fa, che il Presidente Obama diede un mandato speciale: una donna di soli 40 anni, ma con le idee ben chiare, venne assunta come “Provveditore agli studi” della Capitale, col compito di mettere ordine nella scuola pubblica. Dopo una attenta analisi, questa signora decise di licenziare 266 insegnanti. Una scelta approvata e fatta propria dallo stesso presidente Obama. Mentre altri 737 docenti ebbero invece un solo anno per dimostrare di meritarsi il posto da insegnanti. Non si tratta, ovviamente, di licenziare nessuno per partito preso, ma di mettere ciascuno di fronte alle proprie responsabilità. Ecco il punto chiave, non sempre presente nel nostro Paese: un’etica della responsabilità personale.