La recessione ha lasciato dietro di sé una lunga, lunghissima scia di disoccupati. È questa l’eredità più pesante della crisi e la ripresina in vista non riuscirà a creare abbastanza posti per tornare al livello precedente. Ecco perché occorre fare tutto il possibile per rimuovere gli ostacoli che bloccano il mercato del lavoro. Matteo Renzi ha lanciato una proposta che ha già diviso il suo partito, il Pd, e ha aperto una vasta discussione. Bene. Bisogna smuovere le acque. Purtroppo, la sua idea è già stata sommersa da un mare di “no, non si può”. Le motivazioni sono come al solito le più diverse: ideologiche, sociologiche, economiche; teoria e prassi s’inseguono in un tourbillon che ha il solo obiettivo di fermare gli orologi su un tempo passato per sempre. Eppure, a quel nodo non si sfugge o lo si scioglie o qualcun altro lo taglierà per noi, magari di nuovo la Bce, un diktat di Bruxelles o, peggio ancora, un’altra tempesta sui mercati.
Renzi propone un contratto per i nuovi assunti senza l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che impedisce il licenziamento senza giusta causa. Un lungo elenco di soloni di sinistra (ed è ovvio), ma anche di destra (meno scontato, seppur comprensibile), ha già obiettato che non è questa la priorità, che se non aumenta la domanda non crescono nemmeno i posti di lavoro, che in Spagna il taglio dei salari e dei diritti acquisiti non ha ridotto la disoccupazione, e via via sentenziando.
Molte di queste asserzioni sono giuste e sensate, sia chiaro, ma qui non si tratta di sostenere un esame universitario, né di cimentarsi in un esercizio di retorica e dottrina. No, bisogna invertire un’aspettativa, una convinzione radicata (e fondata), quella secondo la quale l’Italia non ha adeguato le sue norme alla condizione del lavoro nell’epoca dalla globalizzazione. È questo il punto. La rigida difesa di chi ha un posto fisso e magari è avanti nella sua progressione professionale ha tenuto i giovani in un limbo di sotto-impiego e basso salario.
Il tema non è esattamente nuovo. Di dualismo, di conflitto tra garantiti e non, si discute in realtà da decenni. Ma nel momento in cui la concorrenza tra la forza lavoro si fa non più su scala nazionale, ma mondiale, è folle perdere tempo in cavilli. Il lavoro deve essere flessibile, la formazione permanente, la qualità professionale elevata se si vuole guadagnare una paga superiore a una media che scende sempre più in basso per la concorrenza dei paesi in via di sviluppo.
Queste caratteristiche sono essenziali nell’industria che compete sul mercato internazionale, ma diventano sempre più decisive nei servizi che oggi rappresentano la parte preponderante del prodotto lordo e il terreno sul quale si cimenta la nuova concorrenza. Non si tratta solo di call center in India o in Albania, ma di finanza, comunicazioni, logistica, trasporti, tutti i pilastri della nuova infrastruttura economica. Ebbene, in ciascuno di essi l’Italia è indietro.
Mentre la manifattura ha saputo difendere la sua quota di commercio internazionale, i servizi italiani non sono da Paese avanzato. E proprio qui s’annidano le peggiori incrostazioni del lavoro. Dai bancari ai telefonici, dai postini ai ferrovieri, per non parlare degli statali, i dipendenti del terziario in Italia sono rimasti indietro di decenni. Basti guardare a quanti di loro parlano una lingua straniera in un Paese ormai invaso dal turismo di massa. O si pensi all’utilizzazione minima di internet mentre ovunque tutto si fa online. Alla bassa qualità della forza lavoro s’accompagnano maggiori rigidità dei salari, degli orari, dell’utilizzo del lavoro, esattamente il contrario di quel che avviene nell’industria sottoposta alla concorrenza internazionale.
È un paradosso e un’ingiustizia: tutto il dibattito resta concentrato sugli operai e i tecnici delle fabbriche, mentre il ventre molle dell’Italia è nel terziario e nella Pubblica amministrazione che negli anni ha spuntato retribuzioni più elevate rispetto all’industria mantenendo orari di lavoro ridotti e privilegi borbonici, come ad esempio la rigidità territoriale o funzionale (ogni spostamento può essere solo consensuale con il risultato di congelare squilibri storici e crearne di nuovi).
La proposta Renzi affronta questi buchi neri? Non del tutto. Il suo contratto d’ingresso, pur interessante, non risolve il problema di creare davvero un contratto unico di base, lasciando poi spazio alla contrattazione aziendale, questione chiave anche e soprattutto nei servizi. I privati che sono entrati nella logistica e nei trasporti o hanno usato lavoratori immigrati o hanno ottenuto contratti ad hoc, così si è creata una giungla di eccezioni del tutto fuori controllo.
L’altra questione irrisolta riguarda gli ammortizzatori sociali. Renzi apre il dossier, però non lo chiude. Aumentare la flessibilità in uscita richiede non solo nuove procedure di arbitraggio tra risarcimento e reintegro, ma soprattutto una vera indennità di disoccupazione, collegata a un sistema di ricerca del lavoro efficiente e funzionale. Si può fare a parità di costi? Probabilmente no. Prolungare l’Aspi dagli attuali otto mesi a due anni costa 30 miliardi secondo le stime di Elsa Fornero.
Un altro passaggio chiave è la riforma della cassa integrazione. Le spese superano i contributi versati ormai anche per quella ordinaria, non parliamo della straordinaria o della cassa in deroga, diventata ormai uno scandalo. La deroga che si fa regola è davvero il peggio del sistema italiano.
Mettere mano al mercato del lavoro è davvero un grande sfida. Il governo Monti ha battuto in ritirata sotto i colpi dei sindacati, soprattutto della Cgil. Il governo Letta non ci ha ancora provato. Renzi ha scosso l’albero e ciò di per sé va apprezzato. Ma perché non diventi un’ammuina, bisogna che le proposte diventino leggi. Sarà in grado di farlo Letta prima che si levi il polverone elettorale? Al 2014 l’ardua sentenza.