L’assegno di ricollocazione, la più significativa innovazione in materia di politiche attive del lavoro prevista dal “Jobs Act”, consiste in un servizio personalizzato, erogato da un Centro per l’impiego o da un soggetto accreditato pubblico o privato scelto dal disoccupato, per la ricerca di nuova occupazione volto al reinserimento nel mondo del lavoro in tempi brevi delle persone senza lavoro e beneficiarie della Naspi (la nuova disoccupazione) da almeno 4 mesi.
L’importo erogato varia da un minimo di 250 a un massimo di 5.000 euro, a seconda del tipo di contratto alla base del rapporto di lavoro e del grado di difficoltà per ricollocare il disoccupato (profilo di occupabilità). L’importo viene, quindi, riconosciuto non alla persona disoccupata, ma al soggetto erogatore che ha fornito il servizio, ma solo (o per meglio dire prevalentemente) a risultato occupazionale acquisito. L’Assegno di ricollocazione, come già detto, può essere “speso” sia presso un Centro per l’impiego sia presso un soggetto presente nell’Albo nazionale dei soggetti accreditati a livello nazionale o regionale.
Una prima sperimentazione partita a marzo 2017 ha, o perlomeno avrebbe dovuto farlo, coinvolto circa 30 mila persone. Infatti, solo 3 mila dei 30 mila disoccupati estratti a sorte come potenziali beneficiari della misura ha effettivamente fatto la richiesta per ottenere l’assegno di ricollocazione. In questo quadro la Legge di bilancio per il 2018, attualmente al vaglio del Parlamento, propone un’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo dell’assegno individuale di ricollocazione anche ai lavoratori titolari di un trattamento straordinario di integrazione salariale (più comunemente conosciuto come cassa integrazione straordinaria).
Tuttavia nel disegno dell’esecutivo l’estensione è prevista con esclusivo riferimento ai casi di conclusione, ovviamente al termine della procedura di consultazione sindacale prevista per la Cigs, di accordi contenenti un piano di ricollocazione, con l’indicazione degli ambiti aziendali, e dei profili professionali, maggiormente a rischio di esubero.
Almeno, insomma, sul versante delle politiche attive siamo di fronte a un primo “tagliando” al Jobs Act anche se ancora c’è molto da fare. Si pensi, solamente a titolo esemplificativo, al tema del personale precario dei Cpi. Altri correttivi sono auspicabili, tuttavia, anche su altri aspetti. Ad esempio, sembra evidente, persino alla minoranza del Pd, che, dopo tre anni, l’aumento dell’occupazione di qualità, e la sua prevalenza rispetto alle assunzioni a termine, che era l’obiettivo, e la scommessa, del Jobs Act, non sia stato raggiunto.