L’Italia smentisce Eurostat sulla differenza tra stipendi italiani e media europea. Lo fa con una nota tecnica dell’Istat, in cui si afferma che “il posizionamento relativo dell’Italia risulta in linea con la media europea, e il valore assoluto nazionale supera ampiamente quello della Spagna e ancor più il valore della Grecia”. Una risposta a stretto giro ai dati diffusi da Eurostat, secondo cui al contrario “le retribuzioni lorde annuali per l’Italia indicate per il 2009 risultano essere pari a 23.406 euro, ponendo il nostro Paese nella graduatoria al di sotto della Grecia (29.160 euro) e della Spagna (26.316 euro)”. Ilsussidiario.net ha intervistato sul tema Pietro Antonio Varesi, professore di Diritto del lavoro all’Università Cattolica di Piacenza.
Professor Varesi, il diritto del lavoro italiano favorisce o frena gli stipendi del nostro Paese rispetto a quelli dell’Unione europea?
In Italia esiste un divario consistente tra il costo del lavoro e il reddito dei lavoratori. Gli oneri previdenziali e assistenziali e le tasse decurtano notevolmente la somma totale pagata dalle imprese, per cui al lavoratore arrivano degli importi sensibilmente ridotti rispetto a quello che è il punto di partenza. L’importo iniziale è abbastanza consistente, poi quando si guarda la busta paga, esaminando tutte le contribuzioni previste e l’ammontare delle tasse, il lavoratore si ritrova con uno stipendio netto piuttosto basso. L’Italia carica sul lavoro oneri eccessivi e quindi le imprese pagano molto il lavoro, mentre i lavoratori ricevono una busta paga bassa.
Quali sono le leggi in Italia che fanno sì che gli oneri sul lavoro siano superiori rispetto agli altri Paesi europei?
Quelle relative al sistema previdenziale, che per stare in equilibrio richiede una quota contributiva che nel settore privato è intorno al 32-33%. L’Italia riesce a tenere in equilibrio il sistema previdenziale solo con un carico contributivo piuttosto elevato.
Quali sono le principali differenze tra la previdenza italiana e quella tedesca?
I sistemi previdenziali variano da nazione a nazione, anche se si sta andando verso una perequazione a livello europeo. Anche le ultime riforme in materia previdenziale hanno cercato di allungare l’età pensionabile dei lavoratori italiani portandola più vicina a quella degli altri paesi europei. In questo senso noi stiamo adottando regole simili a quelle degli altri Paesi europei dal punto di vista dell’età di pensionamento. Con la riforma Dini del 1995 l’Italia era stata addirittura più virtuosa degli altri, almeno per quanto riguarda i meccanismi del mantenimento dell’equilibrio del sistema. Ne avevamo però diluito l’applicazione nel tempo. La riforma pensionistica dell’attuale governo non fa altro che applicare fino in fondo il metodo che Dini aveva individuato ben 17 anni fa.
A che cosa si riferisce?
All’introduzione del metodo contributivo al posto di quello retributivo. Un lavoratore dunque avrà una pensione pari a quanto ha pagato come contributi. Con la riforma Dini erano state però mantenute delle regole particolari per quanto riguarda il pensionamento anticipato e di anzianità. Poco a poco l’Italia sta superando anche questo, e quindi sta diventando a pieno titolo europea.
L’articolo 18 crea degli svantaggi per gli stipendi medi degli italiani?
Gli economisti affermano che tutto ha un costo, e che quindi alcune regole in materia di licenziamento determinerebbero una sorta di costo maggiore per l’azienda. L’effetto sarebbe secondo loro che l’articolo 18 può incidere sugli stipendi. Personalmente però mi sembra un ragionamento tutto da dimostrare, anche perché ritengo che i problemi siano altri. Anche se ultimamente va di moda, mi sembra una forzatura dare all’articolo 18 la colpa di tutte le disgrazie che sono avvenute in Italia negli ultimi 50 anni. Ci manca solo che si scopra che il terremoto è stato provocato dall’articolo 18, e per il resto lo si accusa già di essere la causa della disoccupazione giovanile e dei bassi stipendi. Io ritengo che non sia affatto così. Tutti coloro che si sono occupati del problema, hanno sempre saputo che in Italia i salari sono bassi per l’eccessiva contribuzione e tassazione. Adesso qualcuno da un giorno all’altro si è inventato che sarebbe colpa dell’articolo 18.
Lei ritiene che la rigidità del lavoro in Italia abbassi la produttività?
Tutte le regole del nostro diritto del lavoro possono essere migliorate, e ritengo che nessuno possa farlo meglio delle parti sociali. L’Ocse però una settimana fa ha pubblicato una classifica sui livelli di rigidità delle normative in materia di lavoro, e l’Italia si è classificata come uno dei mercati in cui non esistono le regole più rigide. La Germania, per esempio, è considerata più rigida dell’Italia.
(Pietro Vernizzi)