Su una cosa almeno Valeria Ottonelli, autrice del pamphlet “La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista”, ha ragione: la mortificazione delle donne, molto più che nelle immagini diffuse dai media, sta nei dati sul lavoro femminile. E stando agli ultimi, diffusi tra l’altro dall’Ocse, dall’Eurostat e da Italia Lavoro, il quadro è tutt’altro che confortante, tra alta disoccupazione, bassi salari e soffitti di cristallo sempre più infrangibili.
Le donne rappresentano la metà (almeno) dell’universo delle forze attive; eppure, a tutt’oggi, quando si affronta il tema della crisi economica e dei suoi impatti sull’occupazione e sul welfare, raramente il discorso si sofferma in maniera particolare sul problema del loro coinvolgimento. Quando questo accade, i discorsi restano inevitabilmente generali, se non generici: i fugaci accenni alla questione femminile servono solitamente per ribadire gli universali auspici sull’incremento dei servizi di childcare, come gli asili nido, con i quali si ritiene di aver sedato ogni criticità.
Si tratta di un modo per porre il tema del lavoro da una prospettiva indifferenziata; che continua a ragionare astrattamente sui “lavoratori”, senza tenere conto non soltanto della specificità femminile, ma delle peculiarità di una realtà sociale nella sua strutturazione, che comprende uomini, donne, bambini (loro malgrado coinvolti), famiglie, ciascuno con i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue priorità. L’approccio diffuso non scende a questo livello di profondità: preferisce sposare il punto di vista dell’organizzazione vigente, che vive di uniformità e di prevedibilità, e aspira a farlo anche in tempi di crisi. Di conseguenza, la descrizione del lavoro che ne deriva è quella di un dato di fatto immutabile, un intero impossibile da scalfire: si propone di intervenire senz’altro ai suoi margini – i momenti dell’entrata e dell’uscita dal mercato – ma si evita accuratamente di metterne in discussione le caratteristiche interne – in primis tempi, luoghi, criteri di valutazione.
Vale la pena di sottolinearlo, in occasione di una ricorrenza che vedrà quest’anno l’attenzione dello stesso Presidente della Repubblica dedicata al tema della conciliazione tra famiglia e lavoro: sono queste caratteristiche che, immobili nella loro fissità, agiscono da primo fattore di discriminazione nei confronti delle donne che si avventurano nel mondo del lavoro, pretendendo che si uniformino a un modello anacronistico, penalizzante e falsamente efficientista. I risultati evidenti sono quelli bene descritti dall’inchiesta “Madre/Non madre”, promossa dal gruppo Maternità&Paternità (http://maternitapaternita.blogspot.com), che verrà presentata domani 9 marzo alle 17 a Milano.
Attraverso la somministrazione di un questionario sul web, al quale hanno risposto quasi 2800 donne, sono emerse con chiarezza le difficoltà tanto delle donne che hanno scelto di avere figli – divise in maggioranza tra le “acrobate” e le “sfiduciate”, e solo in minima parte soddisfatte -, quanto di quelle che non ne hanno – nella gran parte dei casi perché vedono ostacoli legati al reddito, al lavoro, o ai tempi della conciliazione.
La stigmatizzazione della maternità, imprevisto insostenibile – che determina, ad esempio, la raccomandazione di liberarsi da “legami familiari” per essere assunte, l’aumento esponenziale delle dimissioni dopo la gravidanza, e la moltiplicazione delle difficoltà per chi tenta di resistere – va così di pari passo con il rischio del “doppio no”, vale a dire la rinuncia forzata sia a una buona collocazione lavorativa – data dall’emarginazione retributiva e inquadramentale – sia ai figli, per ragioni economiche o per il superamento dell’età biologica.
Che siano madri o non madri, le donne sul lavoro pagano la rigidità, l’uniformazione forzata, l’incapacità di guardare allo specifico e di comprenderlo, nel senso più pieno del termine. Iniziative, provvedimenti e misure per cambiare la situazione scaturiscono anzitutto da questa comprensione. Occorre la disponibilità a considerare il problema del lavoro in un’ottica sistemica, ma allo stesso tempo sfaccettata, rifiutando di trasformare la parità in livellamento, evitando di abbandonarsi a diagnosi e quindi a soluzioni tanto generaliste quanto approssimative.
Non soltanto la conquista del rispetto per le donne passa principalmente da qui: ma la possibile via d’uscita dalla crisi, oggi, segue lo stesso tracciato.