Un’alternativa, effettivamente, ce l’avevamo: fare la fine della Grecia. O dell’Argentina. Non che questo renda la riforma delle pensioni meno drastica e aspra. Vista in questi termini, tuttavia, le conferisce quel minimo di legittimità necessaria per non farcela andare di traverso del tutto. Ce ne faremo una ragione, insomma. Resta da capire, ora che è stata approvata in via definitiva, con la conversione in legge anche del decreto Milleproroghe, se esistano margini per ulteriori correttivi tesi ad ammorbidirla. Secondo Alberto Brambilla, esperto di previdenza, già sottosegretario al Welfare contattato da ilSussidiario.net, ce ne sono ben pochi. Analizziamo, anzitutto, i capisaldi: «Complessivamente, consiste in una revisione della precedente normativa – che, già di per sé, era stata ritenuta adeguata, tra gli altri, dall’Ocse – sulla quale opera una serie di accorgimenti». Ecco i principali: «Sono stati irrigiditi i requisiti di età e di anzianità contributiva; è stato introdotto il contributivo pro rata che, benché non comporti particolari risparmi, dà un forte segnale di equità nei confronti delle giovani generazioni; la cadenza triennale dell’adeguamento alla speranza di vita e dei coefficienti di trasformazioni è stata resa, infine, biennale».
Tutto questo, secondo Brambilla, era indifferibile. «L’unico elemento sul quale, probabilmente, si è esagerato è quello dell’anzianità. È stata portato, infatti, a 42 anni e un mese e, per giunta, chi ci arriva prima dei 62 anni subisce delle penalizzazioni. Per una ragione di equità, è plausibile che dopo aver lavorato 41 anni (attualmente, la soglia più alta in Europa), si possa andare in pensione. Eventualmente, al limite, si può pretendere che si tratti di 41 anni effettivi, al netto dei contributi figurativi (salvo quelli per maternità). Trovo altrettanto esagerato che vengano indicizzati alla speranza di vita i 42 anni e un mese».
Tra la questioni sulle quali si dibatte maggiormente vi è quella degli esodati. La posizione di Brambilla, rispetto all’opinione generale, è decisamente divergente: «Per chi avrebbe dovuto attendere ancora, al massimo, due anni, credo che si possa concordare una forma di salvaguardia. Tutti gli altri, in qualche modo, si dovranno adeguare. Trovandosi un altro lavoro. Chi avesse ancora 6 anni di fronte, prima di andare la pensione, infatti, non potrebbe certo lamentare il fatto che gli siano state cambiate le carte in tavola».
Per intenderci: «Cambiare lavoro, anche se difficile, è possibile. Ci si adegua. Negli Usa tutti ricorderanno il caso dell’ingegnere informatico che si è trovato senza lavoro e si è messo a far il piazzaiolo. Forse un padre di famiglia non si industrierà per dar da mangiare ai propri figli perché lo Stato non gli paga un sussidio per i prossimi dieci anni? Chi dovrebbe pagarlo, del resto, questo sussidio?».
Ecco il nocciolo della questione: «Paghiamo il 33% di contributi sociali solo per la pensioni, più un 5-7% di contributi accessori; abbiamo un carico fiscale che è tra i più alti d’Europa, aggravi sulle accise di benzina, alcolici e quant’altro; dobbiamo, infine, lavorare fino a luglio solo per pagare le tasse. Ebbene, vogliamo dover lavorare fino ad agosto o a settembre?».
Del resto, i conti parlano chiaro: «Per mantenere le pensioni di invalidità, le pensioni sociali, le integrazioni al minimo, ogni anno, oltre ai 200 miliardi di contributi versati, lo stato deve prelevare altri 75 miliardi dalla fiscalità generale». In conclusione, «ovviamente, certe situazioni determinano un disagio sociale che rattrista. Ma se ci troviamo con un debito di 1930 miliardi di euro è perché, finora, lo Stato ha garantito ciò che non si poteva permettere. Ora, la riforma, almeno sul fronte previdenziale, pone i conti in ordine. O ce la teniamo così, o rischiamo di fare la fine della Grecia».
(Paolo Nessi)