L’Ocse ha pubblicato in questi giorni il rapporto “Pensions at a Glance 2015“, annuale sintesi dello stato di salute dei sistemi previdenziali dei 34 stati aderenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Tra i pochi paesi cui risultano dedicate alcune specifiche annotazioni politiche non poteva di certo mancare l’Italia, i cui dati sono oggetto di apposito approfondimento in un capitolo a parte (“Country-specific findings and policy notes”) che vale la pena leggere con attenzione, soprattutto alla luce delle recenti discussioni sorte nel nostro Paese sul tema della maggiore flessibilità in uscita.
Su quest’ultimo punto, infatti, il documento è chiarissimo, arrivando a enunciare che “nel medio lungo periodo è necessario stimolare la partecipazione dei lavoratori anziani“. Una posizione quindi in netta antitesi con quella che da mesi occupa le discussioni previdenziali nel nostro Paese, dove si è più indirizzati al “come” normare tale flessibilità in uscita, piuttosto che al valutare “se” tale flessibilità debba essere concessa .
Ciò detto, rimane la necessità di informare e responsabilizzare coloro che assumeranno le decisioni in merito, e, in tal senso, un aiuto può venire dai dati commentati del documento. Partiamo da alcuni assunti di base evidenziati nel rapporto:
Durante il periodo 2010-2015, in Italia, in media, le pensioni pubbliche hanno assorbito 15,7% del Pil, registrando il secondo valore più elevato tra i paesi Ocse, la cui media si attesta al 7,9%.
In Italia il 12,6% della popolazione totale vive in una situazione di povertà relativa. Tale percentuale se riferita alla popolazione ultrasessantacinquenne si riduce al 9,3%; se invece riferita alle persone di età compresa tra i 18 e i 25 anni sale al 15%.
Il reddito medio delle persone anziane è superiore al 95% del reddito medio nazionale.
L’età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro, che rimane la quarta più bassa dell’Ocse, nel 2014 era di 61,4 (uomini) e 61,1 (donne), al di sotto dell’età ufficiale di pensionamento.
Il tasso di occupazione dei lavoratori anziani (tra i 55 e i 64 anni) resta sotto la media Ocse, situandosi, in Italia, per le donne al 37% rispetto al 49% nell’Ocse e al 56% per gli uomini contro una media Ocse del 66%; se si analizza inoltre il tasso di occupazione per i lavoratori di età tra i 60 e i 64 anni, questo è pari a circa il 26%, contro il 45% in media nell’Ocse.
A fronte di quanto sopra, il documento rileva che:
L’invecchiamento della popolazione, la bassa crescita economica e le difficoltà sul mercato del lavoro producono effetti finanziari negativi sul sistema pensionistico.
Il passaggio al sistema contributivo non prevede l’integrazione al minimo del trattamento pensionistico.
Il ritardo nell’ingresso del mercato del lavoro, le interruzioni di carriera, periodi di disoccupazione, lavoro part-time o precario, incidono fortemente sull’adeguatezza del trattamento pensionistico, essendo quest’ultimo correlato alla contribuzione versata (circa un quarto dei giovani tra i 16 e i 29 anni non è occupato e non è coinvolto nel sistema educativo o in formazione).
In Italia si rileva una delle maggiori riduzioni della pensione in conseguenza dell’assenza dal lavoro per un periodo di 5 anni; nel caso dei lavoratori a basso reddito, nel caso di un ingresso sul mercato del lavoro ritardato di 5 anni, la riduzione sarà del 10% rispetto al 3% rilevato nella media Ocse.
In rapporto al Pil, l’Italia ha le entrate contributive più elevate nell’Ocse, e tali flussi sono necessari per pagare le pensioni correnti.
I contributi pensionistici dei lavoratori sono attestati in Italia al 33% (di cui 9,2% a carico del lavoratore) contro il 19,1% di media Ocse.
Dai dati sopra esposti emerge che la criticità previdenziale del nostro sistema non riguarda coloro che, pensionandi, lamentano la rigidità della Legge Fornero sui requisiti di accesso, bensì riguarda tutti coloro che oggi ne sono giovani contributori nonostante l’aleatorietà di adeguatezza che contraddistingue la loro attesa pensionistica.
Sarà importante, secondo l’Ocse, impegnarsi per il livello delle pensioni future, garantendo continuità contributiva, agevolando la stabilità di carriera e favorendo le politiche indirizzate verso il miglioramento del mercato del lavoro, così come in parte già fatto con l’introduzione del contratto a tutele crescenti. Altrettanto fondamentale sarà investire sulla formazione professionale, sull’adeguamento delle qualifiche e competenze, favorendo una maggiore flessibilità alla fine delle carriere. Da qui, quindi, la necessità di una prolungata partecipazione del lavoratore anziano, favorendone l’aggiornamento formativo e, di conseguenza, postergandone l’andata in pensione.
In altri termini, sulla base delle indicazioni dell’Ocse, anziché preoccuparci di come agevolare il pre-pensionamento per coloro che, per loro fortuna, potranno avvantaggiarsi legittimamente di un sistema storicamente generoso, dovremmo impegnarci per favorire livelli pensionistici socialmente adeguati a coloro che, lavoratori attuali, saranno pensionati in un futuro non prossimo.
Twitter @walteranedda