In occasione del dodicesimo anniversario della morte di Marco Biagi proponiamo un suo articolo del 1997 in cui parla della necessità di introdurre contratti a tempo indeterminato per i neoassunti nei quali prevedere il licenziamento a fronte di indennità predeterminate. Una proposta che sembra più che mai attuale oggi che si parla di contratto unico a tutele crescenti.
In aprile grande manifestazione degli imprenditori italiani contro la politica economica del Governo. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, dice di non capire le ragioni della protesta. Antonio D’Amato, consigliere incaricato di Confindustria, critica la miopia del Governo. Licenziare meglio per assumere di più. Lo chiedono ad alta voce gli industriali, lo sostengono numerosi studiosi di origini non sospette, lo ammettono ormai anche alcuni sindacalisti, seppure a bassa voce.
Ce lo consigliano caldamente le istituzioni comunitarie, inviandoci studi condotti dalla Commissione europea che dovremmo prendere più sul serio in tempo. Ce lo propongono paesi come la Spagna e il Portogallo che hanno di recente concluso in materia accordi tripartiti.
Imprenditori e sindacati dovrebbero davvero trovare nella riforma della disciplina dei licenziamenti un nuovo terreno di dialogo. Ambedue hanno interesse ad aprire questo confronto. Per realizzare le indispensabili condizioni di flessibilità reclamate dalle imprese per ragioni di competitività, e imposte dai preoccupanti livelli di disoccupazione, si tende tuttora a incidere sulla disciplina di entrata. Assunzioni e, soprattutto, nuove tipologie di contratti precari. Dal superamento del monopolio del collocamento pubblico fino al lavoro interinale.
I risultati sono modesti e l’insoddisfazione è comune. Fra l’altro la precarizzazione è nel lungo periodo contraria agli interessi di tutti. Per i lavoratori si tratta di un incerto avvenire personale, familiare e professionale. Per le imprese il rischio è di veder vanificati investimenti formativi e motivazionali. Se il “Patto del lavoro” del settembre 1996 riguarda in fondo la flessibilità in entrata, perché non pensare di farne un altro per la flessibilità in uscita, affrontando direttamente la questione del licenziamento?
Si tratta di raggiungere un nuovo equilibrio: regolamentando meglio il potere di recesso del datore di lavoro, si alleggerirebbe la pressione sul fronte dei rapporti precari di lavoro. Potendo licenziare con più chiarezza di regole, si ricorrerebbe meno alle assunzioni a termine, per non parlare delle finzioni dei collaboratori “parasubordinati”. Contando sulla possibilità di poter ridurre più agevolmente la forza lavoro, si assumerebbe di più. Questo è il vero incentivo, come tante ricerche condotte dalla Commissione europea hanno dimostrato.
Nessuno pensa di reintrodurre il recesso ad nutum, ma una nuova ipotesi di flessibilità contrattata. Una formula ragionevole su cui lavorare è quella del recente accordo tripartito spagnolo. Sperimentare un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato per i neoassunti fra certe categorie (giovani, disoccupati di lungo periodo o di età superiore ai 45 anni, invalidi, titolari di precedenti rapporti precari) che potranno essere licenziati a fronte della corresponsione di indennità predeterminate con certezza quando la causa di recesso risulti ingiustificata.
Le integrazioni potrebbero essere due: la previsione nei confronti collettivi (anche aziendali) di tipologie di recesso (restando quelle previste per legge in caso di assenza di previsioni contrattate) e l’introduzione di forme conciliative e arbitrali, eventualmente gestite anche dagli enti bilaterali, forse l’esperienza più significativa di microconcertazione. Sperimentare queste soluzioni appare ormai una scelta obbligata, sempre che le parti sociali abbiano anche in Italia la necessaria determinazione.
(Marco Biagi, Il Sole-24 Ore, 5 maggio 1997)