Archiviata la legge di stabilità, il 2016 sarà l’anno della flessibilità pensionistica. Lo ha sottolineato più volte lo stesso ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Le proposte per superare il modello previsto dalla legge Fornero però sono molteplici, anche perché le esigenze cui vengono incontro sono molto diverse. Per Maria Luisa Gnecchi, membro della commissione Lavoro alla Camera dei Deputati e onorevole del Partito Democratico, occorre una soluzione basata su tre pilastri. A livello generale bisogna poter andare in pensione con 35 anni di contributi, a partire dai 62 anni di età, con una penalizzazione dell’8%. Dopo 41 anni di contributi si deve consentire a tutti di ritirarsi dal lavoro senza limiti di età né penalizzazioni. Mentre vanno riconosciuti ai fini pensionistici anche gli anni che le donne hanno dedicato ai lavori di cura in famiglia.
Onorevole Gnecchi, ci spieghi nel dettaglio le sue proposte in tema di flessibilità pensionistica.
In commissione Lavoro abbiamo presentato la proposta 857 e vogliamo partire da quella. In questo modo si consentirebbe alle persone con 35 anni di contributi di andare in pensione a partire dai 62 anni di età, con una penalizzazione massima dell’8% suddivisa in un 2% per ogni anno di anticipo. Abbiamo anche sollecitato l’Inps rispetto alla nostra richiesta di conoscere quali sarebbero i costi di questa proposta, cui però non è mai stata data risposta.
Molte donne faticano ad arrivare a 35 anni di contributi. Che cosa si può fare per loro?
Occorre tenere conto di quanto finora le donne siano state penalizzate, con soluzioni ad hoc che vadano nella direzione della pensione di vecchiaia. In tutta Europa esiste un riconoscimento sia dei periodi di cura sia di assistenza dei figli. L’unico Paese che non ha nulla di tutto ciò rimane l’Italia. Andare in pensione con 62 anni di età e 35 anni di contributi rappresenta una giusta flessibilità in uscita, ma che non tiene conto della reale situazione delle donne.
Per quali motivi?
Anche in passato, con le quote e la pensione di anzianità senza penalizzazione, le donne in generale si ritiravano dal lavoro con la pensione di vecchiaia perché per loro arrivare a 35 anni di contributi era molto più difficile. Chiediamo dunque il riconoscimento degli anni dedicati ai figli e ai lavori di cura ai fini contributivi o di anticipo sulla pensione di vecchiaia.
Come si può intervenire invece sugli esodati rimasti fuori dalla settima salvaguardia?
Attraverso l’ottava salvaguardia, utilizzando i risparmi del fondo per gli esodati. Ormai abbiamo visto che tutti i calcoli che ci erano stati forniti da Inps e Ragioneria di Stato erano stati di gran lunga gonfiati. Già la sesta e la settima salvaguardia sono state realizzate interamente con i risparmi. Quando nel dicembre 2013 è stata fatta la quinta salvaguardia, avremmo potuto fare anche la sesta e la settima. Questa è la grave vergogna rispetto ai calcoli che ci sono stati forniti.
In che senso parla di grave vergogna?
Perché abbiamo perso due anni. Con le risorse da 11 miliardi e 660 milioni che già avevamo nel fondo a dicembre 2013, l’ultimo miliardo aggiuntivo è stato quello messo a disposizione della quinta salvaguardia con la legge di stabilità del governo Letta.
Quali sono le sue proposte per i lavoratori precoci, quelli cioè che hanno iniziato a lavorare da 15 o 16 anni?
Nella proposta 857 abbiamo previsto anche la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi, senza penalizzazioni né limiti di età, e quindi anche prima dei 62 anni di età.
Si dice spesso che bisogna ridurre la spesa pubblica. Tutte queste proposte non rischiano di farla lievitare?
Se dessimo lavoro ai giovani il Pil aumenterebbe. Bisogna scegliere qual è l’obiettivo primario: io ritengo che in questo momento sia combattere la disoccupazione giovanile, e che per poter dare lavoro ai giovani occorra mandare in pensione i meno giovani. Altrimenti gli 8.060 euro di incentivi per chi assume a tempo indeterminato diventano inutili. Fino a quando i posti sono occupati dagli anziani, i giovani non possono entrare nel mondo del lavoro.
La correlazione lavoro-pensioni è così diretta?
Un anziano costa di più, e quindi l’azienda ha tutto l’interesse a farlo andare in pensione. I giovani costano di meno, e per di più c’è l’incentivo all’assunzione. E’ quindi evidente che mandando in pensione gli anziani si creano automaticamente dei posti di lavoro per i giovani.
(Pietro Vernizzi)