Statali sì, statali no. La riforma del mercato del lavoro e le relative modifiche all’articolo 18 inizialmente non dovevano riguardare i pubblici dipendenti, messi quindi al riparo da licenziamenti economici individuali, che vedono invece coinvolti i dipendenti delle aziende private. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha però fatto un piccolo passo indietro nelle ultime ore, chiarendo che “non era nel mio mandato intervenire sulla funzione pubblica, ma questo non vuol dire che non interverremo. Il governo valuterà che cosa deve essere fatto, o ancora fatto, sul pubblico impiego perché molto è stato fatto”. Il tema è quindi ancora avvolto dal dubbio, anche se l’opinione pubblica, rappresentata in particolare dai dipendenti privati, ha espresso la propria rabbia sul web e non solo, facendo notare un’evidente disparità di trattamento. Andando a osservare la legge attuale, vediamo che lo Statuto dei lavoratori, in base al comma 2 dell’articolo 51 della legge 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego) afferma chiaramente che “la legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Lo stesso principio è anche ribadito da una sentenza della Cassazione, la n. 2233 del primo febbraio 2007, la quale ha stabilito che per il recesso del rapporto di lavoro degli impiegati pubblici e per il licenziamento dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia valgono esattamente le stesse norme, vale a dire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quindi l’eventuale e conseguente diritto alla reintegrazione.
Questione certamente spinosa, che IlSussidiario.net cerca di chiarire con Maurizio del Conte, docente di Diritto del lavoro presso la Bocconi di Milano. Che subito spiega: Evidentemente c’è un problema di coerenza con la privatizzazione del pubblico impiego. Sappiamo infatti che, a seguito di varie riforme iniziate al principio degli anni Novanta, il pubblico impiego è stato almeno sulla carta lentamente ricondotto al pari del lavoro privato. Quindi, se si volesse continuare a dar coerenza a questo percorso, la scelta obbligata sarebbe quella di estendere le nuove norme in materia di licenziamento anche ai dipendenti pubblici. Ciò detto, bisogna però domandarsi come mai questo non sia ancora stato fatto: sorvolando su questioni di carattere puramente politico, dal punto di vista tecnico è evidente comunque un problema. La licenziabilità del pubblico dipendente è quasi in tutto il mondo più difficile, per una serie di ragioni che sono facilmente intuibili: innanzitutto perché il pubblico funzionario in qualche modo incarna l’apparato statale, quindi è chiaro che la sua espulsione da questo è ammessa soltanto in rari casi. Dobbiamo però sottolineare che questo principio generale, che a mio giudizio è ancora valido, di proteggere il pubblico funzionario rispetto ai diversi umori ed equilibri che si possono creare nella politica, ha favorito purtroppo un atteggiamento da parte del pubblico funzionario che spesso è poco conforme all’idea di un lavoro produttivo. Lungi da me qualsiasi desiderio di generalizzare e dare del “fannullone” al pubblico dipendente, non si possono chiudere gli occhi di fronte a fenomeni che tutti possono constatare. Nella Pubblica amministrazione abbiamo certamente delle eccellenze, ma abbiamo anche esperienze molto negative che il cittadino vive quotidianamente quando entra in contatto con i funzionari pubblici».
Secondo il professor Del Conte, «il vero problema è non poter incidere sulle patologie: in nome di un principio sacrosanto di protezione del dipendente pubblico, si coprono spesso situazioni patologiche che, non trovando sanzione, generano anche un effetto emulativo da parte di altri funzionari, che non trovano incentivi a comportarsi nella maniera più giusta. Il segnale che quindi manda la riforma nel dissociare la posizione dei pubblici dipendenti da quella dei privati, allarga la forbice tra quella che dovrebbe essere una misura della produttività e del merito nel lavoro, e quella che in realtà è una garanzia a prescindere per i pubblici dipendenti».
Chiediamo dunque a Del Conte se il governo, una volta decisa la tutela dei pubblici dipendenti, non debba almeno mettere nero su bianco questa volontà con una legge ad hoc: «Dal punto di vista tecnico, è necessario che la riforma dica chiaramente che si vogliono salvaguardare i dipendenti pubblici, e certamente questo segnerà formalmente la divaricazione tra lavoro pubblico e lavoro privato». Ma una disposizione del genere non è da considerarsi palesemente incostituzionale? «Più che un problema di incostituzionalità, vedo un problema di equità sociale. C’è una domanda che dobbiamo porci: è socialmente sostenibile un riforma che, dal momento in cui chiede sacrifici a tutti, mantiene questa sacca di privilegio in capo al dipendente pubblico? E’ certamente una questione cui bisognerà fare grande attenzione, risolvibile probabilmente con un graduale passaggio anche per i dipendenti pubblici a questa nuova disciplina».
(Claudio Perlini)