Destino scritto per i lavoratori parasubordinati: senza pensione e con contributi sempre più salati da pagare (oggi al 28,72%, saliranno al 33,72% dal 1° gennaio 2018). Una situazione che appare inevitabile, attesa la convergenza di tutti i governi compreso quello attuale. Infatti, né il “giovane” Renzi, né il più attento ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno finora lasciato intendere di voler ritoccare la disciplina contributiva (che fa dei soggetti iscritti alla Gestione Separata dei “lavoratori di serie B”) o il previsto innalzamento dell’aliquota contributiva. La ragione è chiara: a rischio c’è il fallimento dell’Inps. È il prezioso apporto dei parasubordinati, infatti, che riesce a mantenere ancora in piedi l’istituto previdenziale.
Con il massiccio saldo positivo di circa 8 miliardi di euro, infatti, co.co.co., co.co.pro. e Partite Iva contribuiscono alla parziale copertura dei saldi negativi delle gestioni previdenziali di dipendenti autonomi, cosa che altrimenti dovrebbe fare lo Stato. Ma può ritenersi socialmente giusto che sia soltanto una categoria di lavoratori – peraltro quella che annovera i soggetti più giovani – a farsi carico del deficit pensionistico? Può ritenersi socialmente corretto che alcuni cittadini debbano pagare contributi nella consapevolezza di non maturare una pensione, almeno non con le stesse prerogative che sono garantite a tutti gli altri lavoratori? “Riformare lo Stato” (oltre a Senato, Province, Cnel e via dicendo) non è forse anche far sì che i cittadini siano tutti “uguali” dinanzi all’Inps?
Il dramma contabile nell’analisi della Corte dei conti – È stata la Corte dei Conti, qualche mese fa, a evidenziare lo squilibrio contabile e sociale dell’Inps in base al quale a ripianare le perdite sono i cosiddetti parasubordinati e chi, più in generale, effettua prestazioni lavorative di carattere temporaneo. Ecco i dati dell’anno 2012 (ultimo bilancio disponibile, con analisi della Corte dei conti fornite a fine novembre 2013): gestione previdenziale dei dipendenti privati, negativo di 1.129 milioni di euro; gestione previdenziale dei dipendenti pubblici (vecchio Inpdap), negativo di 7.125 milioni di euro; gestione previdenziale dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, ecc.), negativo di 11.570 milioni di euro; altre gestioni previdenziali (fondi sostitutivi, integrativi e altre), negativo di 228 milioni di euro. Complessivamente, dunque, il saldo negativo (il deficit Inps) è di 20.896 milioni di euro.
La gestione separata (i parasubordinati), in controtendenza invece, ha registrato un saldo positivo di 8.679 milioni di euro, il che ha consentito all’Inps di chiudere i conti con una perdita contenuta a 12.217 milioni di euro.
Una gallina dalle uova d’oro – Ecco perché sono aumentati e continueranno ad aumentare i contributi dei parasubordinati fino a raggiungere la stessa aliquota dei lavoratori dipendenti (33%). Tuttavia l’equiparazione dei parasubordinati ai dipendenti, benché celebrata come una misura a favore dei lavoratori (l’aumento, è stato detto, contribuirà far aumentare la pensione), in realtà serve ad aiutare soltanto le “casse” Inps. Questo, grazie a una strana anomalia che non è stata corretta da nessuna riforma e da nessun governo: il “criterio dell’accredito contributivo”. Grazie al quale succede non solo che più si alza l’asticella dell’aliquota contributiva più contributi arrivano all’Inps (matematicamente ovvio); ma succede pure che si fa più consistente il calderone di contributi “silenti”, quelli che non daranno mai diritto a una prestazione, risultando (con l’aumento) più difficile raggiungerne il diritto.
Il paradosso dell’accredito contributivo – Nel linguaggio comune, dire che per mettersi in pensione serve avere 66 anni d’età e “20 anni dicontributi” è lo stesso di dire che serve avere 66 anni d’età e “20 anni di lavoro”. In altre parole, “contributi” e “lavoro” sono usati come sinonimi, cosicché a “1 anno di lavoro” si fa corrispondere “1 anno di contributi” e viceversa. La corrispondenza è vera ed esatta se ci si riferisce ai lavoratori “dipendenti” o “autonomi” (artigiano, commerciante, ecc.), perché effettivamente per ogni anno di lavoro questi lavoratori pagano (per mezzo del datore di lavoro o direttamente) un certo ammontare di contributi, tale da garantire un intero anno di “accredito contributivo” utile ai fini della pensione.
La stessa corrispondenza non è, invece, vera ed esatta quando ci si riferisce ai parasubordinati, cioè ai lavoratori iscritti alla gestione separata Inps, poiché in questo caso ci sono regole differenti che riguardano l’accredito contributivo, cosicché a 1 anno di lavoro non sempre e automaticamente corrisponde 1 anno di contributi utili ai fini della pensione. Per i lavoratori dipendenti e autonomi vige un meccanismo tale che garantisce che a ogni giorno, settimana, mese o anno “di lavoro” ci sia esatta corrispondenza a un giorno, una settimana, un mese o un anno “di contribuzione”; lo stesso meccanismo non vige per i lavoratori parasubordinati (è un’eccezione che esiste solo per la gestione separata!).
Questo meccanismo si chiama “minimale contributivo”: è l’importo minimo su cui si devono calcolare i contributi da versare e al di sotto del quale non si può scendere in nessun caso. Quindi, se anche la retribuzione pagata al dipendente è inferiore a tale minimo, il datore di lavoro è comunque obbligato a versare un importo di contributi calcolato sul minimale e questo garantisce al lavoratore “l’accredito contributivo”: ha lavorato 1 giorno avrà 1 giorno di accredito contributivo; ha lavoratore 1 mese o 1 anno avrà 1 mese o 1 anno di accredito contributivo utile per la pensione. Lo stesso meccanismo non opera per i collaboratori, per i quali i committenti pagano contributi alla gestione separata calcolati sugli effettivi compensi erogati ai collaboratori, senza tener conto cioè di un importo minimo; lo stesso è previsto per i professionisti senza cassa, che i contributi li calcolano e li versano da sé.
Tuttavia – e qui sta l’effetto paradossale – un “minimale” per i parasubordinati c’è per l’accredito contributivo: affinché il collaboratore (o il professionista senza cassa, o l’associato, o il lavoratore occasionale) possa ottenere il riconoscimento dell’accredito di 1 giorno, di 1 mese o di 1 anno di contributi, è necessario che risulti pagato un importo di contributi non inferiore a questo minimo di legge. Per l’anno 2014, questo importo minimo di contributi da versare per ottenere il riconoscimento di 1 anno o 1 mese di accredito contributivo è pari rispettivamente a: 4.301,03 euro (di cui 4.189,32 euro ai fini pensionistici) e 358,42 euro (349,11 euro ai fini pensionistici) per i professionisti senza cassa che pagano l’aliquota del 27,72%; 4.456,19 euro (di cui 4.344,48 euro a fini pensionistici) e 371,35 euro (362,04 euro a fini pensionistici) per chi paga l’aliquota piena del 28,72%: 3.413,52 euro (tutto a fini pensionistici) e di 284,46 euro per chi paga l’aliquota ridotta del 22%.
Ciò significa che l’Inps, in presenza di un versamento di contributi per il 2014 pari almeno a 4.457 euro accrediterà al professionista senza cassa 1 anno intero di contributi; se il versamento è inferiore a tale soglia accrediterà tanti mesi quante volte l’importo di 371,35 euro entra in quello dei contributi effettivamente versati. Tradotto in compensi, per raggiungere il versamento minimo di contributi che, per l’anno 2014, consente di avere 1 anno di accredito contributivo, occorre avere guadagnato almeno 15.516 euro ossia 1.293 euro mensili. Il collaboratore che guadagna la metà, cioè 646 euro al mese (7.758 euro l’anno), è la ovvia conseguenza, deve lavorare due anni per avere dall’Inps il riconoscimento di 1 anno di contributi utili ai fini della pensione e di ogni altra prestazione cui sia richiesto un requisito di contribuzione (per esempio, l’una tantum in caso di disoccupazione).