Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. Dunque la parola passa ora al Parlamento che tra misure su articolo 18, licenziamenti, ammortizzatori sociali e contratti dovrà “partorire” una legge. Non sarà un compito facile, dato che l’impianto generale studiato dall’esecutivo è stato criticato apertamente dalla Cgil, oltre che dall’Italia dei Valori e da Sinistra ecologia e libertà, e qualche suo aspetto non convince fino in fondo la Cisl. Difficoltà che crescono considerando che il Partito democratico, pur sostenendo il governo Monti, ha chiesto che la riforma fosse il risultato di un accordo con tutte le Parti sociali. Abbiamo fatto il punto della situazione con Antonio Panzeri, eurodeputato del Pd, già Segretario generale della Cgil milanese tra il 1995 e il 2003.
Questo governo ha fatto tutto quello che poteva fare per procedere con le parti sociali in modo unitario o trova che ci sia stata anche una resistenza conflittuale della Cgil?
Credo che non si sia fatto tutto ciò che era possibile fare. È stato spiegato in lungo e in largo che bisognava fare una manutenzione all’articolo 18 e la proposta unitaria che era in campo da parte del Sindacato (Cgil Cisl e Uil) era quella di applicare pienamente il modello tedesco. Si è continuato a dire che bisogna uscire da questo vincolo e collocarci in Europa dove questo problema è stato affrontato diversamente, ma mi è parso di comprendere che a un certo punto le organizzazioni sindacali sul modello tedesco erano allineate.
E invece?
Si è voluto invece forzare attorno al tema del licenziamento individuale per problemi economici. E già si trattava di una grandissima innovazione rispetto a un dibattito che ha caratterizzato questi ultimi 10 anni, dall’uccisione di Marco Biagi a oggi. Non riesco a comprendere la ragione per cui non si è colta questa disponibilità fino in fondo che non sarebbe stata comunque una passeggiata per la stessa Cgil. Forse qualcuno – mi riferisco al Ministro del Welfare e al Presidente del Consiglio – un esame di coscienza dovrebbe farselo.
A proposito di Marco Biagi, lei era Segretario generale della Camera del lavoro di Milano quando fu redatto il “Patto di Milano”: un’intesa che fu alla base del clima di tensione che culminò poi nell’omicidio del Professore bolognese.
Che ci fu tensione è evidente, ma come è naturale e giusto dire questa tensione non può essere mai utilizzata per dire che abbia aiutato a criminalizzare, perché un conto sono le tensioni dialettiche che si sono avute attorno a questa vicenda, un conto è il barbaro assassinio del Professor Biagi da parte delle BR. Bisogna tener ben distinti questi due piani, altrimenti si rischia semplicemente una strumentalizzazione che non aiuta la ricostruzione storica, né tantomeno il futuro.
Qual era la sua posizione rispetto all’Intesa “Milano Lavoro”?
Ho sempre avuto un atteggiamento di disponibilità all’ascolto e alla contrattazione nei confronti di quest’innovazione. Tuttavia le modifiche che intervenivano, oggettivamente cominciavano a cambiare l’assetto della contrattazione nazionale perché si introducevano alcune deroghe. E questa non era una disponibilità che io potevo avere: avevo la necessità di confrontarmi all’interno dell’organizzazione e la stragrande maggioranza dell’organizzazione non era favorevole a un’ipotesi di questa natura. Io mi sono attenuto a questo dibattito e a queste conclusioni a cui poi è pervenuta la Cgil.
Il dibattito sul lavoro oggi le sembra teso come allora?
Siamo in una normale dialettica tra parti sociali e tra opzioni politiche diverse che penso siano anche il sale della democrazia. Del resto non si può immaginare di chiudere l’epoca della concertazione e nello stesso tempo pretendere che siano d’accordo tutti a prescindere.
Tuttavia qualche mese fa l’ex Ministro Sacconi ha lanciato un allarme terrorismo…
L’atteggiamento del Senatore Sacconi negli anni in cui è stato Ministro mi è sembrato più teso all’escludere che all’includere, mentre invece bisogna avere la pazienza necessaria affinché tutte le parti sociali in modo unitario possano giungere alla definizione di un accordo. Per alcuni tratti mi è sembrato che invece c’è stata nella passata gestione l’idea che non era obbligatorio coinvolgere tutte le organizzazione sindacali. L’atteggiamento del Governo Monti, pur avendo le proprie opinioni, inizialmente sembrava diverso. Mettere d’accordo tutti è certamente una fatica, ma chi vuole governare con il consenso questa fatica deve caricarsela sulle spalle.
Marco Biagi diceva che il mercato del lavoro italiano era il peggiore d’Europa. Come vede lei oggi dal suo osservatorio europeo la situazione italiana?
Marco Biagi diceva la verità. Il nostro mercato del lavoro è eccessivamente segmentato e non è cambiato di molto da quando il Professore faceva queste osservazioni. Il sistema formativo non funziona per nulla, è oggettivamente difficile che si coniughino domanda e offerta di lavoro. La necessità di una riforma è sotto gli occhi di tutti, però è una riforma che deve pigiare tutti i tasti della tastiera e non solo quello dell’articolo 18, per esempio quello degli ammortizzatori sociali, i rapporti di lavoro, la maggiore propensione a un sistema formativo, agenzie territoriali per il lavoro che funzionino effettivamente, connessione maggiore tra scuola e lavoro. Queste sono le cose da fare per rendere più qualitativo il mercato del lavoro italiano su scala europea.
Secondo lei, i contenuti del dibattito sul lavoro in Italia facilitano questa crescita?
Bisognerebbe deporre le armi ideologiche e lavorare concretamente sui problemi. Bisogna essere consapevoli che se si vuole far funzionare al meglio il mercato del lavoro in Italia attraverso una riforma effettiva occorrono proposte concrete, ma anche una disponibilità finanziaria importante: le riforme costano, modificare l’attuale situazione degli ammortizzatori sociali e della cassa integrazione, trasformare questo in un nuovo modello, significa mettere a disposizione risorse finanziarie ingenti per poter realizzare questo obiettivo. Bisogna essere consapevoli di questo.
Qual è la sua impressione in merito?
La mia impressione è che invece ci si formalizzi in qualche modo esclusivamente su un tema guardandolo in modo ideologico. Questo salva la coscienza da parte di tutti, non è affrontare il tema, ci si crea un alibi e basta. Se si vuole andare in profondità e trattare la questione per quella che è, bisogna invece che tutti si siedano intorno al tavolo, diano la loro massima disponibilità, ma abbiano anche la consapevolezza che un processo di questa natura ha bisogno del contributo di tutti, ma ha bisogno anche di essere accompagnato da risorse finanziarie importanti.
In Italia flessibilità fa rima con precarietà…
Non è obbligatorio che lo sia. Vorrei che si tornasse in qualche modo a quella che era l’ispirazione poi fraintesa, oppure omessa, di Marco Biagi. Mi pare, avendolo conosciuto a quei tempi, che la sua idea fosse quella di introdurre rapporti di lavoro tesi a facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro per poi fornire una stabilizzazione alle persone che entravano. Invece, in questi anni è stata un po’ girata la frittata… le nuove strumentazioni sono state utilizzate per abbattere i costi in entrata da parte delle imprese e anziché portare alla stabilizzazione, si sono reiteratamente riprodotte come un mantenimento della precarietà delle persone. Quindi non si è trattato di un’innovazione per la qualità, ma di un’innovazione per abbattere i costi del lavoro. Non funziona così per il mercato del lavoro, ma neanche in particolare per le imprese.
Ci spieghi meglio…
Le imprese avrebbero bisogno di risorse da inserire nel proprio mondo della produzione, sul quale bisogna investire dal punto di vista formativo, per poi stabilizzarle affinché contribuiscano alla crescita dell’azienda. La dialettica che vi è stata in tutti questi anni è stata tra la via alta alla competizione, l’innovazione di qualità, e la via bassa, la competizione dei costi. Purtroppo ha prevalso la via bassa, la competizione dei costi, che è un pozzo senza fondo, ci sarà sempre qualcuno che vorrà abbassare i costi per essere più competitivo.
Qual è la sua opinione su questo punto?
Io credo che le imprese, soprattutto in questa fase di globalizzazione accentuata, debbano essere competitive sotto il profilo della qualità, della ricerca. Questo è ciò che si dovrebbe fare, ma se questo avviene anche il mercato del lavoro deve accompagnarsi con qualità a questo processo. Se si rimane solo sul versante dell’abbattimento dei costi, allora il tema è molto riduttivo e precarizza di più.
Secondo lei, il nuovo apprendistato può funzionare in quest’ottica?
Può funzionare a condizione che sia davvero apprendimento finalizzato alla stabilizzazione della persona. Ciò non significa il posto di lavoro a vita, ma nel momento in cui un’azienda assume una persona e ritiene che quella persona corrisponda alle sue esigenze, trovo del tutto normale che ci sia una conferma e una stabilizzazione della persona. Sarebbe sbagliato che il nuovo apprendistato venga utilizzato solo per abbattere i costi.
Rispetto alla preoccupante situazione dell’occupazione giovanile, il rapporto Censis 2010 parla di “calo del desiderio”. I giovani sembrano avere paura, non è il caso di infondere più fiducia?
Indubbiamente. Per realizzare questo credo sia opportuno e necessario dotarsi di una infrastruttura che allo stato attuale marca visita. Più saremmo in grado di produrre maggiore fiducia, più genereremo anche nuove speranze e nuove aspettative, e anche un atteggiamento più positivo rispetto ai processi che stanno avvenendo. Bisogna agire su due versanti, uno è quello di rendere meno segmentato e più inclusivo il mercato del lavoro, l’altro è quello di mettere in campo politiche del lavoro e dell’occupazione per far crescere la produttività e allargare la base produttiva. Lavoriamo per riformare e per far crescere, questo deve essere l’obiettivo.
(Giuseppe Sabella)