“Mission Impossible”. Scardinare le logiche sedimentate in decenni di immobilismo, sovvertire i protocolli, cambiare le regole, scuotere le abitudini, rottamare la vecchia politica. Fin dall’inizio la proposta politica incarnata da Renzi reclamava questi aspetti, identificandoli come i principi risolutivi per uscire dall’impasse politica, sociale ed economica in cui il nostro Paese si è cacciato e dalla quale faticosamente tenta di uscire, senza particolare successo, peraltro.
La tanto attesa “rottamazione” doveva portare una ventata di novità. Ci si aspettava un impatto dirompente sulle fasce più giovani di cittadini, riportando sotto i riflettori tematiche riguardanti l’istruzione e la ricerca, una disoccupazione giovanile che ha raggiunto ormai cifre mortificanti, un riequilibrio generazionale del sistema previdenziale, la meritocrazia in campo politico e professionale, la precarietà, la competitività delle imprese, la valorizzazione dell’imprenditorialità giovanile, ecc. Nel frattempo i segnali di rottamazione sono stati quantomeno contrastanti: forti, decisi e rivoluzionari nei proclami, nei toni, nella comunicazione; più cauti, concilianti e diplomatici nei (pochi) fatti compiuti a oggi, seppur con precisi segnali di rottura, sempre più evidenti.
Chiariamolo: ciò che Renzi ha in animo di fare non è esattamente definibile come “un compito semplice”, ma è una vera e propria missione impossibile. Ha fondamentalmente contro di sé parte del suo stesso partito, oltre che il gigante arrugginito di un intero apparato burocratico, corporativista e statalista, che si è costruito e sedimentato negli anni, autoalimentato da privilegi, consuetudini, interessi, convinzioni, favori reciproci. Qualcosa di mastodontico per poter pensare che sia annientabile con dei semplici proclami o delle ottime strategie di comunicazione. Servono i fatti, tanti, scomodi, decisi e impattanti.
Cerchiamo di capire innanzitutto l’impatto delle politiche finora attuate o prospettate da questo Governo, concentrando l’attenzione su due aspetti che toccano da vicino gli interessi delle generazioni più giovani: l’equilibrio e la sostenibilità del sistema previdenziale, che oggi i giovani lavoratori contribuiscono a finanziare, e la lotta alla disoccupazione, con relative implicazioni in tema di riforma del mercato del lavoro.
La volontà di intervenire nuovamente sull’assetto del sistema previdenziale, correggendo alcuni aspetti della riforma Fornero, era chiara già dal Governo Letta ed è stata riaffermata negli ultimi giorni dal nuovo esecutivo. Auspichiamo che nelle prossime settimane la discussione entri nel merito, indicando con concretezza come intervenire, con che strumenti e specificando quali sono gli effetti attesi, in quanto le dichiarazioni pervenute in ordine sparso dal Governo sono state finora piuttosto vaghe.
Goffo e impreciso è sembrato l’intervento di qualche settimana fa del neoministro Marianna Madia, che proponeva di prepensionare un certo numero di dipendenti pubblici (si parlava di circa 85.000) per rinnovare la burocrazia e fare largo ai giovani. Se da una parte bisogna riconoscere lo spirito positivo di cambiamento e di rinnovamento dell’intervento proposto, dall’altra occorre fare attenzione affinché l’istinto di rottamazione non vada a surclassare qualsiasi considerazione sulla meritocrazia, principio altrettanto importante da far germogliare all’interno della Pubblica amministrazione. Vanno poi considerate le conseguenze sul bilancio pubblico: ci troveremmo a dover sostenere sia l’impatto di risorse aggiuntive inserite nel comparto pubblico, sia l’aggravio sul delicato (dis)equilibrio del sistema pensionistico, che verrebbe gravato da ulteriori prepensionamenti. Per questo, le seppur buone intenzioni del Ministro Madia lasciano spazio a più di qualche dubbio.
Lo spirito della proposta viene in qualche modo ripreso, sempre in termini piuttosto vaghi, dal Documento di economia e finanza appena presentato dal governo Renzi, che contiene alcune indicazioni in tema di pensione anticipata, impegnando il governo “in prospettiva a valutare la reintroduzione di meccanismi di flessibilità di uscita rispetto ai nuovi limiti anagrafici, attraverso un sistema di incentivi e disincentivi” Il ministro del Lavoro Poletti, durante un intervista a TvRepubblica, ha tentato di entrare più nel dettaglio, specificando di star lavorando “a un’idea molto semplice: ti manca un anno al pensionamento? Ti do un assegno che non è la pensione fino a quando raggiungi i termini. Per questo anno la tua impresa continua a pagare i contributi previdenziali come tu fossi tornato a lavorare e l’assegno che ti ho dato un po’ me lo restituisci nei tuoi 30 anni di pensione e un po’ te lo paga lo Stato”.
Non rimane che attendere il momento in cui tali proposte prenderanno realmente forma, in modo da valutarne più concretamente gli impatti. Una cosa sembra però chiara: il Governo non pare intenzionato a toccare in alcun modo i diritti acquisiti per attenuare uno squilibrio generazionale che, per come stanno le cose, vedrà i più giovani pagare il conto per un banchetto a cui non hanno partecipato (vedi riflessioni su baby pensioni e sul differenziale creato tra le pensioni calcolate con metodo retributivo e contributivo su queste pagine).
Sul piano del lavoro e dell’occupazione, il decantato Jobs Act è uscito ridimensionato rispetto alle attese e non sembra sufficiente a garantire una forte scossa al mercato del lavoro, tale da provocare uno “shock” occupazionale e imprimere una decisa inversione di tendenza. La strada da percorrere presupponeva una scelta di fondo. Da una parte, continuare ad allargare le differenze esistenti tra chi ha un contratto di lavoro iper-protetto a tempo indeterminato e chi invece è impiegato con una delle forme “flessibili”. Dall’altra, la possibilità di avviare un processo di convergenza che porti a superare totem ideologici come l’articolo 18, puntando a un sistema equilibrato in cui il contratto a tempo indeterminato sia certamente il fulcro principale, ma depurato da questa iper-protezione asfissiante che soffoca l’occupazione, che non risponde alle sfide di un moderno mercato globale e che è ormai diventata un privilegio per pochi, la cui difesa è interamente pagata dalle nuove generazioni di lavoratori e disoccupati.
Di fronte a questo bivio, il Governo pare avere intrapreso la prima strada, che è ovviamente quella con meno ostacoli, politicamente parlando. Il Jobs Act lascia infatti inalterato l’intero impianto del contratto a tempo indeterminato, cercando di agire con piccole iniezioni di flessibilità, soprattutto facendo leva sul contratto a tempo determinato come strumento per creare occupazione. In un Paese come il nostro, che conosce tassi di lavoro nero e disoccupazione, specie giovanile, tra i più alti d’Europa, in questo momento anche un provvedimento come questo può essere d’aiuto nel breve termine, ma ciò che manca è una strategia e una prospettiva di lungo termine, che porti a superare il dualismo così marcato nei meccanismi di tutela dei lavoratori.
Detto questo, deve però essere chiaro a tutti che il lavoro lo creano le imprese, non i contratti di lavoro. Una razionalizzazione contrattuale orientata ad avere una moderna flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro che sia coerente con i tempi che sono cambiati è auspicabile, ma non può essere sufficiente a risolvere il problema di una disoccupazione giovanile che si è ormai drammaticamente stabilizzata oltre il 40%. È ovvio che entrano in gioco aspetti legati complessivamente alla ripresa economica, al rilancio dei consumi, alla produttività del lavoro e alla scarsa propensione alla tecnologia del nostro tessuto imprenditoriale, che rimane una delle problematiche che minano alla base la competitività delle nostre imprese.
Nonostante le dichiarazioni rivoluzionarie del Governo Renzi, quindi, alla prova dei fatti non è ancora riscontrabile un’apprezzabile differenza rispetto al passato e la tanto acclamata rottamazione fatica a mostrarsi nella concretezza di cui si avverte così tanto il bisogno, soprattutto su tematiche così delicate e importanti, che coinvolgono i giovani lavoratori e le ampie fasce di popolazione che faticano a trovare un’occupazione.
Di fatto la strategia comunicativa del Governo Renzi appare chiara, rapida e convincente, senza eguali tra i suoi predecessori, ma fortemente election-oriented. Peccato che per l’Italia e per i giovani italiani il tempo dei proclami sia esaurito e ci sia un disperato bisogno di fatti, di concretezze e di decisioni.