Una riforma del pubblico impiego poco originale, che ritorna sui temi della riforma Brunetta, in parte per tornare indietro, in parte per confermarla, priva di veri strumenti per migliorare il funzionamento della Pubblica amministrazione. Con l’approvazione dei decreti legislativi attuativi della riforma Madia disposta giovedì scorso dal Governo, si avviano i passi conclusivi di un processo partito nel 2015 e caratterizzato da incidenti di percorso clamorosi, come la sentenza 251/2016 che ha comportato la decadenza della delega per la riforma della dirigenza, uno dei punti, peraltro, più controversi dell’intero pacchetto. Tra maggio e giugno, invece, dovrebbero andare in porto le modifiche al testo unico sul lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione (d.lgs 165/2001) e della riforma Brunetta (d.lgs 150/2009).
I temi, come rilevato prima, sono sostanzialmente sempre gli stessi. Campeggia la lotta ai “furbetti” di varia natura. Per i lavoratori pubblici infedeli, che attestano falsamente di essere presenti in ufficio mentre sono in altre vicende affaccendati, si riconferma l’impianto di una delle prime norme attuative della legge 125/2015: la sospensione entro 48 ore dalla conoscenza dei fatti e il termine di 30 giorni per chiudere il procedimento disciplinare col licenziamento, se la frode sia avvenuta in flagranza. La conferma dell’impianto si è resa necessaria perché anche la norma anti-frode sulle presenze, il d.lgs 116/2016, era stata coinvolta dalla sentenza 251/2016 della Consulta.
La “stretta”, comunque, riguarderà tutti i casi nei quali i dipendenti saranno colti in flagranza nel commettere infrazioni sanzionate col licenziamento. In generale, poi, il procedimento disciplinare viene modificato: la durata, per le infrazioni non connesse a flagranza di infrazioni sanzionate col licenziamento, durerà 90 giorni e la competenza sarà sempre di un apposito ufficio e non più dei dirigenti, il cui intervento diretto sarà limitato al rimprovero verbale. La durata di 90 giorni taglia quella attualmente prevista di 120, per le infrazioni che vanno dalla sospensione con privazione della retribuzione per almeno 11 giorni fino al licenziamento; ma pochi hanno notato che allunga da 60 a 90 giorni la durata dei procedimenti per sanzioni dalla censura alla sospensione con privazione della retribuzione fino a 10 giorni, che costituiscono la stragrande maggioranza dei casi.
Sempre del capitolo “lotta ai fannulloni” fanno parte le misure che imporranno il divieto di incrementare le risorse destinate ai premi nel caso in cui le assenze degli enti risulteranno superiori a medie standard, in particolare quando concentrate nei periodi di picco di lavoro o agganciate alle festività. I contratti collettivi fisseranno le sanzioni disciplinari per colpire proprio queste tipologie di assenze e quelle “di massa”, considerabili come “organizzate”.
Se queste norme possono essere considerate in completa continuità con le logiche della riforma Brunetta, vi sono due temi che invece costituiscono un chiaro ritorno indietro. Il primo, riguarda le regole su valutazione della produttività. Lo schema di riforma prevede l’abolizione delle fasce di valutazione, imposte nel 2009 per forzare le amministrazioni a diversificare i premi, prevedendo che il 50% dei relativi fondi andasse al 25% dei dipendenti con le migliori valutazioni, il restante 50% del fondo al 50% dei dipendenti con valutazioni medie, così che il 25% restante dei dipendenti restasse privo di incentivi. Questa formula sarà eliminata e sarà la contrattazione collettiva nazionale a determinare i criteri ai quali attenersi per garantire valutazioni non a pioggia, ma senza predeterminazione di fasce e percentuali.
Proprio il rilievo della contrattazione nazionale collettiva è il secondo elemento che la riforma Madia prevede in contrapposizione alla riforma Brunetta. Questa aveva limitato la rilevanza dei contratti come fonte del rapporto alla sola materia della disciplina del trattamento economico e delle relazioni sindacali. Lo schema di riforma, invece, torna ad assegnare ai contratti nazionali collettivi (ma non a quelli “aziendali”) potere di derogare le leggi, anche se vi sono molte materie che restano escluse dalla contrattazione, tra cui l’organizzazione degli enti, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, il reclutamento del personale, le responsabilità sui procedimenti.
L’accresciuta forza – comunque relativa – dei contratti è uno dei principali tributi che la riforma ha dovuto riconoscere ai sindacati, per effetto dell’accordo col Governo, stipulato il 30 novembre 2016, una delle principali spinte alla revisione di alcuni elementi della riforma Brunetta particolarmente invisi alle organizzazioni sindacali.
Altro elemento caratterizzante la riforma, ma per nulla nuovo, è la cosiddetta “stabilizzazione” dei precari. È, tuttavia, una quinta ondata di stabilizzazioni in 11 anni, dai contenuti, peraltro, estremamente simili a quella prevista appena nel 2013 dal “decreto D’Alia” (il d.l. 101/2013): cioè selezioni riservate a dipendenti che abbiano lavorato per tre anni anche non continuativi o riserve nei concorsi pubblici per questi dipendenti. Unico elemento di novità, comunque parziale perché già previsto la scorsa estate per la stabilizzazione degli educatori degli asili nido e nelle scuole materne, sarà la possibilità di finanziare le stabilizzazioni (si parla dell’immissione in ruolo di circa 50.000 dipendenti entro il 2020) trasferendo le risorse poste a finanziare i contratti flessibili nei capitoli che finanziano, invece, la spesa per il personale stabile.
Difficile reperire, tra queste misure, gli strumenti che dovrebbero davvero ottenere il risultato di migliorare la produttività dei dipendenti pubblici. Sembra che il legislatore resti affascinato dal tema di come valutare, piuttosto che dalla modifica dei sistemi di lavoro. Basti notare che non c’è alcuno spazio per la disciplina di modalità diverse di organizzare le attività, come il telelavoro o il lavoro agile e la conseguente modifica della logistica e degli orari. Il problema della Pa non è solo contrastare, come doveroso, chi truffa non presentandosi in servizio, ma fare in modo che chi sia ligio al dovere e si presenti in ufficio, abbia davvero carichi di lavoro utili e produttivi.
Ultimo, ma non meno rilevante, elemento di spicco della riforma, è la scrittura di una norma apposita, che prevede la reintegra per i dipendenti pubblici colpiti da licenziamento illegittimo. A differenza di quanto molti stanno affermando, non si tratta affatto di una conferma dell’applicabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico: se così fosse stato, sarebbe bastata una semplice norma di interpretazione retroattiva. È, invece, una nuova norma, necessaria per creare un trattamento differenziato tra dipendenti privati e pubblici. Ma, proprio per questo, a evidente rischio di illegittimità costituzionale.