La costruzione delle società umane richiede la capacità di affrontare sfide che si affacciano nel tempo e che mettono a rischio la stabilità dell’accordo costitutivo delle comunità. Alcune di queste sfide sono generate da dinamiche interne alle società stesse (e in quanto tali possono essere almeno teoricamente reversibili), altre o sono esterne e legate a fenomeni non controllabili, oppure sono così interdipendenti con lo sviluppo della società da risultare virtualmente irrisolvibili con il ritorno allo stato ex ante.
L’Italia del 2014 (e probabilmente l’Europa) sta vivendo due di queste sfide nella confusione delle reazioni politiche dei movimenti che risultano oggi rappresentativi del quadro politico. La prima sfida è legata alla risoluzione delle tante contraddizioni legate alla costruzione dell’Europa unita, che viene banalizzata dalla rozzezza quasi medievale della politica della Seconda repubblica come scelta tra euro sì o euro no. La seconda (che è quella di cui mi occupo in questo articolo) riguarda la transizione tra un mondo della produzione e dello scambio che ha avuto radici nell’incredibile corsa della produttività collegata allo sviluppo dei modelli di organizzazione del lavoro seguita alla diffusione del modello di razionalizzazione del lavoro del Management scientifico di Frederick Winslow Taylor, e un modello che nessuno riesce con chiarezza a descrivere (anche se alcuni elementi traspaiono nel lavoro di Castells sulla società in rete), ma le cui conseguenze sono l’accelerazione del ciclo di vita di prodotti e servizi che comporta la pressione verso il contenimento costante dei costi di produzione dei beni e una feroce competizione tra idee, prodotti e servizi nuovi.
Questa seconda sfida è quella che ha conseguenze reali e immediate sulle persone (a differenza di quella sull’Europa, che è solo una per me incomprensibile regressione culturale e politica a vantaggio di personaggi discutibili, politici, sedicenti economisti e codazzo imprecisato di “esperti” da Circo Barnum) e ha trovato il nostro Paese impreparato. Impreparato perché immerso nella palude di un sistema consociativo che ha fatto gli interessi dei rappresentanti, prima che dei rappresentati. Da un lato, infatti, questo sistema ha tutelato l’occupazione degli insider, quindi in molti casi gli iscritti del sindacato, scaricandone la protezione sulla collettività, con la complicità di un sindacato preoccupato di conservare un potere di rappresentanza politica più che di risoluzione del problema economico e organizzativo, almeno in alcune sue componenti.
È un sindacato che almeno nei suoi vertici ha brandito la questione industriale come un vessillo simbolico, ma ha abbandonato qualsiasi capacità di analisi e sintesi sui luoghi di produzione e sul cambiamento del lavoro. Nelle sue parole si sente l’eco di un’immagine sbiadita di cosa voglia dire lavorare, quasi da museo degli anni ‘70. Sembra quasi uno specchio di una società in cui si invecchia, ma ci si imbelletta e tratta con il botulino per sentirsi sempre giovani. Dall’altro lato, non si può sottacere come questo sistema abbia consentito troppo a lungo di mantenere una struttura delle imprese italiane e della loro governance di fatto irresponsabile.
Qualsiasi incapacità gestionale, magari legata a un uso disinvolto delle imprese come surrogato della cassaforte di famiglia o del clan, è stata facilmente scaricata di nuovo sulla collettività in nome di un ideale di conservazione del posto di lavoro. Si è creata nel Paese una struttura, oggi marcescente, che di fronte a un’economia di mercato nella forma cela invece un sistema diffuso di reti di protezioni per alcune categorie, sempre a carico della collettività (tasse) o dei consumatori (tariffe, prezzi concordati, ecc.).
Non è un caso che questi mondi, sulla carta fieramente contrapposti, in realtà rivelino sintonie non equiparabili ogni volta che si cerca di porre mano al sistema delle regole del mondo del lavoro. Se non risultasse sinistra, potremmo ben rispolverare la sintonia degli opposti estremismi, quella sintonia del profondo conservatorismo di un Paese che non ha mai superato la fase della modernità, anche se si è formalmente modernizzato e industrializzato. Insomma, quella malattia che già Pietro Gobetti individuava come radice del fascismo nel 1922 nella struttura stessa della società italiana e che è oggi presente nei rigurgiti anti-storici e irrazionali che la attraversano nel momento in cui è obbligata a cambiare, una volta per sempre.
Il disprezzo del riformismo che ne deriva ha quindi radici profonde ed è stato il prezzo pagato da ogni iniziativa di rottura della stabilità dal dopoguerra a oggi. È in questa prospettiva che si deve interpretare la battaglia che si sta scatenando attorno alla mini riforma del lavoro e più in generale attorno a ogni prospettiva di innovazione radicale dell’assetto del Paese.
Il dramma, tuttavia, è che per l’ennesima volta questa battaglia viene combattuta da schieramenti che sono troppo intersecati tra loro per poterla condurre fino in fondo, anche questo sintomo di una società malata che mette in scena il conflitto come ritualità, ma nella sostanza pasteggia felicemente nei retroscena degli incontri a Cernobbio o in palazzi più prosaici a Roma o Milano. È questa impossibilità di cambiare, anche quando ci si presenta come “il cambiamento”, che ha affossato l’esperienza di Forza Italia (marginalizzando la sua componente liberale e gobettiana) e che sta distruggendo la visione renziana, che si traduce nel balletto delle concessioni che tra Camera e Senato hanno snaturato il potenziale del decreto legge sul lavoro sotto il tiro dei tanti cecchini giapponesi nelle aule e dei mandarini ricordati da Maurizio Ferrera su Il Corriere delle Sera negli uffici delle due camere.
Ne emerge una legge poca incisiva e molto lontana dal poter evocare quella trasformazione radicale sbandierata dal Presidente Renzi e osteggiata dai suoi oppositori che si sono sollevati ancora una volta più per ritualità appassita che per ragioni specifiche.
Anticipo i due soli aspetti positivi: la rimozione della necessità di una motivazione per l’utilizzo del contratto a termine (che toglie anche l’inaccettabile discrezionalità ai giudici del lavoro che spesso hanno una competenza organizzativa pari a quella che posseggo io nel giardinaggio…) e l’introduzione, timida, della logica del risarcimento invece che dell’assunzione, proponendo un modello meno rischioso alle imprese. Dopo di che non rimane che una lista di amare delusioni per chi voglia un cambiamento per questo povero Paese.
In primo luogo, il totem paralizzante del nostro Paese, ovvero la definizione della cosiddetta “forma comune” del rapporto di lavoro, che rimane il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che continua quell’operazione di discriminazione dei lavoratori tra una forma iper-garantita e una pluralità di forme sulle quali si scarica la ricerca di flessibilità numerica. È una roccaforte sindacale e di una sinistra demodé che resiste a ogni considerazione economica, sociale e politica e al cui culto si sta sacrificando qualsiasi operazione di redistribuzione degli oneri della crisi, bruciando sull’altare di un’equità ideologica (irrealizzabile e, sia detto, anche un po’ offensiva per chi ne paga il prezzo) la possibilità di un’equità reale e sostanziale (purtroppo destinata a essere al ribasso, almeno in una fase iniziale). A chi la ricorda, non siamo lontani dall’operazione manipolativa della difesa della scala mobile degli anni ‘80, ma questa volta la parte più retriva del sindacato può contare sull’appoggio di vasti strati dell’apparato politico di governo.
Un secondo aspetto di conservazione è l’operazione politica che ha riportato dentro decreto la sostanziale obbligatorietà dell’offerta formativa pubblica per l’apprendistato, anche integrata da un’evocativa aggiunta all’articolo 2 di una formulazione che prevede che le Regioni possano avvalersi “anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili”. Nella prima versione era presente una formulazione che lasciava alle imprese la scelta, ma il passaggio alla Camera e la successiva approvazione al Senato hanno garantito alle Regioni la gestione di una partita di natura politica ed economica di cui sarebbero state private. Ma dovendo essere più realisti del re, non ci si è limitati a questo, creando le basi per poter gestire questa partita con possibili trasferimenti di risorse verso gli erogatori di formazione del mondo della rappresentanza datoriali. Quelli stessi erogatori che, va ricordato, stanno facendo man bassa delle risorse per la formazione finanziata con il sereno assenso delle parti sindacali.
Un terzo aspetto dell’assoluta normalizzazione è la retromarcia sulla possibilità di attivazione di contratti di apprendistato anche senza stabilizzazione che, in un classico tiro alla fune che denota la qualità del processo legislativo delle nostre camere, è passata dall’assoluta discrezionalità a una soglia obbligatoria di assunzione del 50%, fino a un compromesso del 20%, ma dai 50 dipendenti in su, invece che 30 (immaginiamo quale fine discettare abbia prodotto queste scelte e quale intensa analisi dei dati…).
Un quarto aspetto riguarda le sanzioni per la violazione dei limiti posti alla percentuale di rapporti di lavoro a tempo determinato. Anche qui il percorso parlamentare ha dato evidenza del potere di interdizione di logiche ormai antiche. Il balletto non si è fatto mancare anche una tappa in cui si imponeva la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a chi violava i limiti previsti che assume sempre di più la valenza di sanzione nella visione distorta dei nostri legislatori. Per fortuna, come dicevo, l’ultima lettura ha innovato, proponendo una logica di risarcimento, unica luce nel buio di questo provvedimento (ma sarà destinata a durare veramente?).
Mentre si assisteva a questa vera e propria pantomima, più a uso e consumo delle proprie posizioni politiche esterne che alla soluzione dei problemi del lavoro, lo specchietto delle allodole è stato il tema del numero di rinnovi possibili del contratto a tempo determinato sul quale si è scatenato un dibattito degno del gioco della morra tipico delle valli del mio Trentino. Il finale è come sempre inglorioso. Un Governo che ha un decreto legge che non risolve nulla, un Parlamento che ha riaffermato il suo potere irragionevole e le parti sociali che incassano quel tanto di visibilità e legittimazione su cui sono solidali.
La domanda che vorrei fare è se il Governo pensa davvero che questo provvedimento avrà un impatto sul problema centrale che è la disoccupazione. Ma non occorre, la risposta l’ha data già il Fondo monetario internazionale, evidenziando come il problema sia altrove. Il problema è nel consociativismo, che è così pervicace e diffuso che avvelena ogni tentativo per quanto timido di riforma e inibisce ogni possibilità di innovazione economica, sociale e politica in tutta la società.