La cordialità con cui il mondo industriale aveva acclamato il governo Monti, pari solo al “tripudio” per l’auto-confino del Cavaliere, si è, da tempo, stemperata. La riforma del mercato del lavoro, rispetto ai proclami iniziali e alle manifestazioni d’intenti rivoluzionari, è apparsa piuttosto diluita. Il Ddl, così com’è, annacquato nelle contrapposte istanze delle parti in gioco – alle suggestioni delle quali il governo pensava di essere immune – a Confindustria, in sostanza, non piace per niente. Il mondo delle imprese aveva messo in conto di riceverne un poco di ossigeno. E, invece, nulla. Poco più di una folata di vento. Non è troppo tardi per correre ai ripari; il provvedimento, per ora, è un’ipotesi e l’associazione degli industriali (ma anche il Pdl) ha chiesto di modificarne i connotati in corso d’opera. Abbiamo interpellato Maurizio Del Conte, Docente di Diritto del Lavoro alla Bocconi, per capire se le misure proposte possano sortire effetti benefici o meno.
A Confindustria, ovviamente, la nuova formulazione dell’articolo 18 non va bene. Chiedevano l’abolizione completa della reintegra almeno per i licenziamenti economici e hanno ottenuto una sfumatura della versione iniziale.
La norma introdotta dal governo cambia ben poco rispetto alla situazione attuale. La reintegra viene consentita al giudice in ciascuna delle tre tipologie di licenziamento. Il vero problema consiste nell’aggravio di confusione che viene a determinarsi; definire l’”assoluta insussistenza” del motivo oggettivo è, infatti, un’operazione filosofica che il giudice non è in grado di effettuare caso per caso. L’unica cosa che può fare è decidere se il giustificato motivo esista o meno.
Cosa propongono le imprese?
Chiedono di poter individuare con certezza in quali casi la reintegrazione non sia prevista e sia garantito solamente un indennizzo economico. Questa non è la soluzione prospettata dal testo e, di conseguenza, le imprese sono contrarie. Inoltre, la norma contenuta nel Ddl, oltre a essere di difficile formulazione e applicazione, allunga notevolmente i tempi del processo.
Perché?
Se la riforma dovesse entrare in vigore come è stata disegnata, i gradi di giudizio diventerebbero addirittura 4, invece che 3. Ovvero, il primo giudizio, l’opposizione, il reclamo e la Cassazione. Senza considerare la fase preliminare di conciliazione.
Si tratta di un altro punto fortemente osteggiato dagli industriali.
Sarebbe un’ottima idea, se funzionasse. Se si trattasse, cioè, di un meccanismo effettivamente alla tedesca.
Quindi?
In Germania, sono le imprese e i sindacati (che siedono nei Consigli di sorveglianza, organi di governance della società) a gestire il licenziamento; e, quando si arriva a esso, vuol dire che è già stato operata una sorta di pre-filtro che lo ha autorizzato. Ciò non significa, di certo, che il lavoratore non possa impugnarlo. Tuttavia, la proposta conciliativa formulata dal giudice è accettata dal lavoratore nel 95% dei casi. Tale proposta, infatti, non è il frutto di una mera trattativa tra il lavoratore e l’impresa, ma di una composizione di interessi in cui lavoratore, impresa e sindacati giocano una partita che condividono. Del resto, la conciliazione è un istituto che, in Italia, già esisteva ed è stata di recente abolita, attraverso il Collegato lavoro, proprio perché non ha mai prodotto risultati apprezzabili.
Cosa dovrebbero chiedere le imprese sul fronte della flessibilità in uscita?
In questa fase, alle imprese converrebbe concentrarsi sugli appesantimenti in entrata, piuttosto che sulla flessibilità in uscita. Tanto più che non vedo particolari margini di manovra. Quindi, o si arriva ad una soluzione radicale, o ogni ulteriore modifica rischia di complicare ulteriormente la norma.
Sull’articolo 18, in ogni caso, cosa rappresenterebbe la svolta?
Occorrerebbe dare certezza a imprese e lavoratori, definendo una volta per tutte quando la causa del licenziamento è illegittima e quando non lo è; ovvero, il lavoratore deve sapere fino a che punto può considerarsi protetto, e le imprese fino a che punto possano o meno licenziare.
Veniamo, quindi, alla flessibilità in entrata: il Pdl critica la decisione di introdurre un aggravio contributivo dell’1,4% sui contratti a tempo determinato.
Il contratto a termine è considerato pressoché da tutti una forma di flessibilità buona, esistente in qualunque economia avanzata. Garantisce i medesimi diritti del tempo indeterminato, salvo la durata. Non si capisce, effettivamente, perché si sia deciso di introdurre quell’onere aggiuntivo. Trovo, invece, positivo porre un limite alla reiterazione di tali contratti onde evitare il loro abuso per celare contratti a tempo indeterminato. Questo, tuttavia, non ha nulla a che fare con il loro utilizzo fisiologico che, se fosse limitato, penalizzerebbe, in particolare, oltre alle imprese, l’entrata dei giovani nel mercato occupazionale.
Il Pdl, invece, chiederà di esentare dai criteri che impongono la trasformazione in co.co.pro. la fascia alta di tali rapporti.
E’ una misura ovvia, e di buon senso; molti lavoratori ricoprono, di fatto, posizioni da manager, guadagnando cifre decisamente elevate e sarebbe ridicolo che il loro rapporto di lavoro fosse tradotto in co.co.pro perché si avvalgono della partita Iva. Non solo: i criteri del reddito prevalente, della postazione fisica e del periodo di almeno sei mesi stabiliti dal governo sono decisamente grossolani e rischiano di colpire quelle professionalità autonome, definite e di un certo livello, che andrebbero, invece, sostenute e salvaguardate. Mi riferisco, ad esempio, ai lavori creativi, ai consulenti o ai pubblicitari.
La riforma prevede per i lavori a chiamata o a intermittenza l’obbligo di comunicarne la durata alla Direzione territoriale del lavoro. Il Pdl ha chiesto di eliminare tale vincolo.
Capisco che sia una scocciatura burocratica che andrebbe snellita. Ma è, contestualmente, l’unico modo per impedire che questo rapporto nasconda forme miste tra lavoro in nero e lavoro a chiamata: capita, nei casi di abuso, che il lavoratore sia iscritto a matricola con un contratto di chiamata, che ufficialmente lavori una volta alla settimana ma, di fatto, cinque.
L’ultima richiesta da parte del Pdl consiste nella rimozione dei vincoli per l’assunzione di nuovi apprendisti, ove i vecchi non siano stati assunti a tempo indeterminato
Occorre uscire da un’ambiguità. Se si crede realmente che l’apprendistato rappresenti il cosiddetto contratto dominante per l’ingresso dei giovani nel lavoro, porre delle quote significa crederci solo a metà. Significa ammettere la presunzione e il sospetto che, di fatto, possa consistere in una sorta di “finto apprendistato” dove, in realtà, non si apprende nulla, assimilabile quindi a qualunque altro tipo di contratto. Sarebbe, in tal senso, sufficiente applicare la legge e verificare che, effettivamente, la formazione sia avvenuta.
(Paolo Nessi)