Il lancio di Matteo Renzi di una proposta di lavoro di cittadinanza, la richiesta d’inserire la parola “articolo 1” nel simbolo dei Dp fuoriusciti dal Pd e il già genericamente noto reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle con la sua inclusione della temporaneità come propedeutica allo stesso sono un forte richiamo alla penna di economista politico per quanto, già anni fa, scrissi, sempre in relazione alla riforma del welfare. Con il post referendum costituzionale ecco apparire con forza il richiamo alla Costituzione con la Repubblica fondata sul lavoro. Tutto ciò – con le prime dichiarazioni di valenza politica nel quadro attuale – appare come uno dei driver politico-elettorali dei prossimi mesi.
Non posso che ringraziare la pazienza della redazione che offre spazio alle riflessioni e per farlo ne riduco l’utilizzo di una corposa premessa “postando” i link sul lavoro e sul mercato del lavoro trattati in modo decoroso, soprattutto il secondo, da Wikipedia. Chi vuole potrà approfondire e/o chiarire alla bisogna.
In ogni caso ripartiamo dalla Costituzione, che letta in modo intelligente non è di destra, né di sinistra, né di centro, ma è quanto vollero darsi come base fondante della Repubblica i costituenti…e andiamo avanti. Andiamo avanti perché scommetto che nessuno si sia mai nascosto l’esigenza di riformare il lavoro, cambiando lo stesso mercato del lavoro. Qual è il carattere distintivo, valevole erga omnes e riconoscibile da tutti, tranne da quelli in ignoranza, che si attribuisce al lavoro, oggetto di riflessione filosofica e leva politica dei maggiori pensatori delle scienze filosofiche economiche e sociali?
Il lavoro è quell’attività che permette a una persona di vivere la sua dignità e come tale di vivere con dignità fino a permettergli di raggiungere i propri traguardi, o in un’altra parola, ove e per quanto possibile, di realizzare i propri sogni. Poiché non siamo tutti uguali, quello che deve essere uguale per tutti è la base del ciclo economico-sociale che si salda con quello vitale (mio vecchio cavallo di battaglia un po’ alla Samuelson, un po’ ai suoi epigoni) e nel farlo innesta il tempo come una variabile cruciale.
Se immaginiamo il tracciato di vita di una persona, lo potremmo pensare come una grande U, anche se molto stemperata nei suoi tratti che segnano anche passaggi. Noi abbiamo “a monte”, tratto a sinistra: la famiglia di provenienza, poi la scuola dell’obbligo, poi l’università, poi il lavoro (che può arrivare anche prima per abbandono della scuola o per rifiuto di proseguire), la famiglia di destinazione (che può essere da single o composta da due o più membri) che accompagna nel lavoro che c’è, come anche in quello che non ci sarebbe, fino alla pensione. Così nel ciclo della vita ho i nonni e i genitori all’inizio che intervengono il più delle volte nel mio sostegno (ma può accadere anche il contrario e questo lo si potrebbe sperare più spesso), per poi ritrovarsi nell’avanzamento del ciclo vitale (il tratto ” a monte” di destra della U) a essere genitori e nonni. E questa non è teoria, è vita.
Questo né più, né meno deve essere lo sfondo, la trama, l’architrave, o chiamatelo come volete, per poter costruire con adeguatezza qualsivoglia politica della famiglia, dell’educazione e istruzione, del lavoro stesso, della sanità, della previdenza e assistenza e quindi del welfare. Senza questo non si può avere una visione d’insieme che possa sostenere una riforma complessiva con prospettive di successo nei diversi segmenti che si interrelano nello svolgimento del ciclo. Tempo quindi come misuratore di vita, assetto demografico e censuario come misuratori di campo. È infatti l’insieme dei campi a fare scenario.
Quello che va compreso è che se non si capisce che il lavoro per esistere va creato (passi per quello di sostituzione generazionale che può essere solo giustificato come un passaggio emergenziale, anche se molto lungo) non si realizza che questo Paese ha bisogno di politiche attive e non surrogatorie ma complementari di tipo misto pubblico-privato. Solo così si sviluppa un lavoro che richiede ambiente di germinazione, di sostegno e azioni di sviluppo in un quadro di certezza del diritto (d’impresa soprattutto) e in gradi di confidenza/fiducia che deve innalzarsi dal localismo al sistema Paese. Questo anche perché la nuova dimensione e il diverso valore del lavoro cadono sotto variabili esogene. Quella che De Kerckhove giustamente chiama la quarta rivoluzione industriale richiede di pensare il lavoro nelle sue diverse accezioni come la dimensione continuativa di una fase della vita. Ed è qui il core di questa proposta. Si inizia a lavorare durante o dopo gli studi (questo dipenderà da che tipo di riforma si vuole varare) e si smette con la pensione.
Questo lavoro può non essere nella sua continuità un unico tipo di lavoro, ma deve prevedere sia il lavoro ordinario, quello desiderato da tutti, sia il cosiddetto “lavoro di passaggio”, con una retribuzione temporanea che viene corrisposta nei periodi di ricerca del lavoro, così come in quelli di esclusione/formazione/reintegro (i cosiddetti periodi di passaggio), ma sempre in continuità contributiva e sanitario-assistenziale. Un reddito temporaneo questo, che deve cessare se l’interessato rifiuta per tre volte l’offerta di lavoro propostagli.
Il fatto di potersi avvantaggiare proprio con gli item principali della quarta rivoluzione è un fattore vincente per delineare il lavoro 4.0, il quale non può prescindere dalla creazione, uso e potere dell’informazione. In verità nulla di stratosferico in quanto detto, ma l’ampiezza delle realizzazioni necessarie, gli investimenti richiesti, le capacità di operare con lungimiranza diventano le variabili basiche per il successo.
E il successo è dato dalla misura in cui il lavoro ordinario arrivi nel più breve tempo possibile sostituendo quello temporaneo pagato con un reddito anch’esso temporaneo sociale integrato da contributi e assistenza sanitaria dal fatto che risponda a una soglia di dignità. Un lavoro pagato in misura tale da stimolare la retribuzione media oraria di mercato senza essere sponda dell’abbandono alla ricerca o dell’accettazione dei lavori di mercato. È per questo che la sua durata massima non dipende da una norma, che per i presupposti prima enunciati non vi può essere. Ma dipende dall’efficienza del sistema. E l’efficienza del sistema si basa sull’informazione tratta dai big data e una volta analizzata e resa friendly sulla sua distribuzione. Distribuzione che non ha confini regionali o localismi. Come il lavoro che genera reddito sociale è uguale in tutto il territorio nazionale, così l’accesso al gioco della domanda e dell’offerta si disloca analogamente sullo stesso territorio, a meno che l’interessato non voglia andare all’estero.
Necessariamente si tratta di un lavoro gestito da un’entità, un’Agenzia che è pubblica, ma non è un lavoro nella Pa dove l’interessato dovrà sostenere un concorso. Né un lavoro privato a surrogato come quello derivante dalle esternalizzazioni degli enti locali, lavoro questo per il quale la contrattualizzazione diviene un fattore primario.
Al contempo il reddito di passaggio può essere visto come una rete di protezione attiva anche nel momento in cui il circuito esclusione-reintegro possa prevedere una mobilità territoriale sostenuta da una migliore aspettativa nel raggiungere altre destinazioni fuori della regione di appartenenza. Oppure possa sostenere prevedendone appositi moduli d’intervento un cambio di categoria da dipendente ad autonomo o piccolo imprenditore. In ogni caso questo lavoro che si potrebbe chiamare lavoro 4.0 è presente durante l’intero arco vitale produttivo, ma non in continuità per tutto il tempo.
È un lavoro costruito dalla mobilità settoriale e territoriale, dove sono scomparse casse integrazione, Naspi e tutti gli altri ammortizzatori puramente sociali, poiché cambia la logica e l’uso. E inoltre è un lavoro il cui reddito non può essere confuso con altre forme derivanti solo dalla libera contrattazione delle parti sociali, come ad esempio i fondi di solidarietà, ecc. Materia di dibattito politico parlamentare e di legge, dopo i necessari confronti con le parti sociali, questo “lavoro di passaggio” viene gestito fissando principalmente bacini settoriali pubblici, ma che poco o nulla avrebbero a che vedere con i cosiddetti lavori socialmente utili.
Va da sé e deve essere chiaro per quello che si dirà più avanti per l’Agenzia del lavoro, va individuato un gestore che tratteremo in un altro articolo. Nella proposta che avanzai nel 2011 l’unico elemento che colpì la fantasia dei 5 Stelle fu la sospensione dell’assegno al disoccupato che non accetta le offerte di nuovo lavoro. Forse l’Agenzia per le politiche attive del lavoro potrebbe trovare una migliore ricezione (almeno dal titolo così sembra). Tuttavia il gestore che io intendo deve essere adeguato e dotato di nuove abilità che qui anticipo solo con un motto (sicuramente sgradito ad alcuni): centralizzazione delle risorse, regionalizzazione dei comportamenti.
Ma se il lavoro non c’è? Mi spingo a dire che il lavoro c’è e ci sarà, indipendentemente che sia come quello di 50 anni fa o della scorsa settimana, che sia dipendente, o autonomo, o imprenditoriale, che passi attraverso le start up o le banche e le assicurazioni. A sostenere questa dimensione interviene qui il detto che il lavoro si paga e quindi genera reddito. Qui non si tratta né di reddito di cittadinanza, né di lavoro di cittadinanza che poi prevedono retribuzioni di forma assimilate ai sussidi di disoccupazione. Questo deve essere un vero e proprio lavoro, ancorché di passaggio tra fasi di lavoro e non, e pertanto temporaneo, integrato dai contributi e dall’assistenza sanitaria vigente in un quadro di welfare stabile eppure dotato di quell’intelligenza verso la flessibilità e l’innovazione che ne permette il miglioramento. Cambiando gli addendi il risultato non cambia: temporaneo qui non è sinonimo di precarietà e reddito di passaggio non è sussidio assistenziale.