In una recente intervista a Il diario del lavoro, Paolo Pirani – Segretario Generale della Uiltec e voce autorevole del mondo Uil – ha testualmente detto che non serve riaprire una trattativa con Confindustria, la riforma dei contratti si è compiuta con i rinnovi di settore. La cosa è piuttosto lampante, vale la pena però di ripercorrere il recente passato per tirare quantomeno qualche conclusione.
Quando nel 2012 Giorgio Squinzi fu eletto alla Presidenza di Confindustria, ai più parve che potesse iniziare un corso che andava a ricucire i grandi strappi del mandato di Emma Marcegaglia: nel 2009, infatti, si registrava il primo accordo interconfederale separato e – sulla scia di questo – nel 2010 esplodeva il caso Fiat. La questione era molto semplice, al di là delle divisioni tra le Parti: in piena crisi economica, gli imprenditori temevano molto la dinamica inflattiva, si pensava infatti che il costo del barile potesse schizzare alle stelle. Confindustria, così, si dichiarava disponibile a ridiscutere di rinnovo dei contratti alla sola condizione che venissero riprese e ben definite le funzioni dei due livelli contrattuali e che si desse certezza alle imprese circa l’inflazione. Da qui l’accordo generale con il deciso rinvio alla contrattazione di secondo livello e l’introduzione dell’Ipca – l’indice dei prezzi al consumo – che legava in modo forte il salario all’inflazione. L’intesa fu firmata dagli Industriali e dalle sole Cisl e Uil, non dalla Cgil.
L’equivoco del secondo livello si trascina da quasi 25 anni, da quando bene o male ha avuto le condizioni per decollare – con l’accordo sulle Rsu del ‘93 – trovando tuttavia un’applicazione nella vita delle imprese piuttosto limitata, anche per le peculiarità del nostro tessuto produttivo, incentrato sulla piccola e media impresa che a oggi non ha avuto interesse a contrattare direttamente.
Sul caso Fiat si è ormai scritto tutto. Quello che ci interessa ricordare ora è che Giorgio Squinzi mai nella sua storia di Presidente di Associazioni aveva firmato un accordo separato. Non solo, quindi, si pensava che durante il suo mandato si giungesse a un nuovo accordo unitario dopo quello del 2009, ma addirittura lo stesso Presidente Squinzi confidava di riportare Marchionne in Confindustria. E invece, né l’una né l’altra cosa, al di là del Testo Unico sulla Rappresentanza (2014) che resta tuttavia un documento storico nella storia delle confederazioni. Sono stati in molti, alla fine del mandato di Squinzi, a rimproverargli di non essere giunto a un accordo. Chi lo conosce sa quanto il grande industriale si sia speso e abbia sofferto per la mancata intesa.
Ora che però – come dice Pirani – la riforma dei contratti l’hanno fatta i settori e le federazioni, anche i maligni si saranno convinti che non era colpa di Squinzi. Questo non solo per memoria storica, ma anche perché a questo punto ci chiede di prendere atto del grande enigma che attraversa oggi il mondo interconfederale. La grande congiuntura ha naturalmente stressato molto il lavoro e l’impresa e, con essa, le rappresentanze. Il deciso rinvio alla contrattazione di secondo livello, oggi, è necessario perché è molto difficile prevedere produzione e distribuzione di ricchezza. Ognuno, quindi, ha trovato le sue soluzioni. Fa strano, semmai, che qualcuno dal mondo confederale dica che non va bene l’inflazione pagata ex post: il problema della dinamica inflattiva è proprio ciò che andava risolto su quel piano.
Ora, la domanda è ineludibile: qual è la funzione oggi del sindacato confederale? Il processo di ridefinizione dei rapporti tra federazioni e confederazioni è in corso, la crescita della contrattazione di secondo livello renderà sempre più protagonista chi contratta. Il sistema interconfederale, al di là dei servizi preziosi che offre agli associati, potrà certamente essere importante nella definizione delle politiche economiche e industriali. A patto che, alle porte di Industry 4.0, si inizi a ragionare sui problemi veri dell’industria e del lavoro. E non dei voucher.
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