È sempre difficile parlare di ammortizzatori sociali. Ma, in questi giorni, lo è meno. Perché la storia del Cristianesimo ci ha ricordato che la “manna” non è cibo di vita eterna. Di manna si tratta, infatti, quando si parla di ammortizzatori sociali. Una manna che sazia i lavoratori per farli ricadere, una volta finita, in una fame di lavoro più forte di prima.
Sazia i lavoratori durante l’agonia del loro rapporto di lavoro, sottoforma di cassa integrazione straordinaria a ridosso del licenziamento collettivo o nell’ambito di procedure concorsuali dell’impresa, dal fallimento alla liquidazione coatta amministrativa. Sazia i lavoratori che hanno già perso il loro lavoro, ma solo per qualche anno sottoforma di indennità di mobilità o, per un massimo di 16 mesi dal 2015, sottoforma di indennità di disoccupazione, già detta “Aspi”.
La differenza è che questa manna ha un costo. E anche alto per il nostro Stato, che ha speso in politiche passive più di 30 miliardi di euro dal 2008 a oggi. E allora il ministro Poletti ha ragione a denunciare la necessità di politiche attive per il lavoro. La domanda difficile è però: quali?
Perché come insegna l’Ocse una politica attiva, e quindi di promozione dell’occupazione, ha un senso a due condizioni alternative tra loro. Una è che ci siano posti di lavoro per renderli più facilmente occupabili, l’altra è che, in assenza, sia possibile crearli. Condizioni che però al momento non ci sono. Anzi, i posti di lavoro continuano a diminuire, al ritmo di 143.700 unità l’anno, come stima il recente rapporto Unioncamere.
Perché hanno fallito le politiche attive sino a oggi poste in essere. Facciamo tre esempi. In Italia, ci sono posti di lavoro che i giovani non vogliono fare perché manuali, tra cui il sarto, il panettiere, il falegname, l’installatore di infissi o l’operaio specializzato. La Fondazione Consulenti del Lavoro ne ha contati l’anno scorso 150 mila. Una buona politica attiva avrebbe imposto di creare canali per l’accesso a queste professioni. E, invece, è solo degli inizi di giugno il decreto interministeriale che, in via sperimentale, ha introdotto l’apprendistato scuola-lavoro per gli studenti degli ultimi due anni dell’istruzione tecnico-professionale.
Ma, soprattutto, le Regioni dagli inizi di maggio dissipano il tesoretto della Youth Guarantee, pari a circa 1,5 miliardi di euro, con all’attivo 74.000 iscrizioni di giovani compresi tra i 15 e i 29 anni. E così, quelle meno virtuose lo investono in corsi di formazione poco efficaci; quelle più virtuose in bonus occupazionali che hanno il sapore stantio degli incentivi già previsti dal decreto Giovannini. In questi anni la Francia e la Germania hanno utilizzato i fondi europei per riorganizzare i servizi per l’impiego, con investimenti dell’ordine di 5,9 miliardi euro per il primo Paese e di 9 miliardi per il secondo.
Una buona politica attiva avrebbe imposto di fare lo stesso. E invece l’Italia ha investito in questi servizi poco più di 500 milioni di euro, in assenza di un coordinamento a livello nazionale e di un raccordo tra quelli pubblici e privati.
In Germania, il lavoratore perde l’indennità di disoccupazione se non accetta di svolgere un lavoro “ragionevolmente accettabile”. Una buona politica attiva avrebbe imposto di seguire quest’esempio. Ma, date le premesse, i nostri Centri per l’impiego non sono in grado di fare queste proposte e i giovani di accettarle perché privi della formazione necessaria per i lavori richiesti dal mercato.
Un’altra domanda difficile allora è: come muoversi? Con molta cautela, è la risposta. Quindi, con il mantenimento in vita dell’attuale sistema di politiche passive per il lavoro sino a quando non saranno rimossi gli ostacoli per buone politiche attive. Perché il rischio è che, per fare in fretta, anziché fare un passo avanti, se ne facciano ancora una volta due indietro.