Si è appreso qualche giorno fa che, nella Relazione illustrativa (paragrafo 7) del cda di Fiat sul progetto di fusione transfrontaliera in Fiat Investment NV, “per quanto riguarda le attività di Fiat che non resteranno connesse alla stabile organizzazione italiana di Fiat, la fusione implica la realizzazione di plusvalenze o minusvalenze (comportando una Italian Exit Tax)”. Di questa Italian Exit Tax (resa “più europea” nell’agosto 2013), di cui – come avevamo riportato in occasione della comunicazione di trasferimento all’estero del Lingotto – il Presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, aveva minacciato di “ripensarne l’aliquota” in modo da trasformarla in una Fiat Tax, non si è più sentito parlare. La Exit Tax c’è sempre, ma l’aliquota è rimasta quella.
Per capire quanto, tuttavia, di Fiat si parli giusto perché qualcosa bisogna pur dire – e ci riferiamo anche a chi dovrebbe affrontare il caso in modo serio visto che un’intera industria in Italia sta scomparendo – è interessante conoscere i recenti sviluppi della vicenda. Nella medesima Relazione illustrativa, si legge infatti che il Fisco italiano non incasserà un’euro, in quanto “Fiat si attende che tali plusvalenze siano largamente compensate dalla presenza di perdite fiscali all’interno del gruppo”. Si consideri infatti, come ben riportato sempre su queste pagine, lo “scudo fiscale” di 4 miliardi di euro in Italia generato dalle perdite subite negli anni scorsi.
È davvero desolante assistere al processo di deindustrializzazione di questo Paese e vedere i nostri politici che non se ne curano, minacciano una tassazione crescente, parlano dei costi che una seria politica industriale comporterebbe quando in questo Paese non si è mai fatta; come del resto ha fatto Mucchetti a commento dell’annuncio di Fiat di lasciare l’Italia, non con il suo apparato produttivo almeno per il momento. Certo è che, tra un discorso e l’altro, Marchionne dice che investe, ma poi non investe e il contratto non si firma. Renzi intanto, invitato a Grugliasco all’Assemblea degli Industriali, valuta di non andare. C’era Chiamparino, che – giustamente – ha affermato l’impegno della sua Regione per far crescere l’impresa sul territorio.
E perché Renzi non è andato? Il suo Governo, come del resto la Regione, non deve contribuire alla crescita dell’impresa e dell’industria? Certo che sì naturalmente, ma i nostri Governi – e per il momento quello di Renzi non fa eccezione – sanno contribuire alla crescita dell’industria solo con la cassa integrazione (si consideri che nel 2011 i costi della cassa integrazione sono stati oltre i 24 miliardi di euro).
Renzi naturalmente sa bene che Marchionne e Fiat-Chrysler rappresentano un “viatico” interessante per l’economia italiana. Da Sindaco di Firenze non aveva mancato di affermare il suo apprezzamento per il lavoro del manager italo-canadese. Da Primo Ministro è molto guardingo, sa bene che rischia di pagare caro il suo appoggio all’ad del Lingotto, per più di un motivo. Rischia di ritrovarsi tra più fuochi: è chiaro che Marchionne, per investire in Italia come ha promesso, vuole un sostegno forte da parte del Governo, sostegno che in questo momento l’esecutivo fatica a dare. Ecco perché Renzi non si cura di questo caso, ed ecco perché qualsiasi dichiarazione in merito è sempre di circostanza. Il Governo in buona sostanza ha deciso di occuparsi molto relativamente dell’industria in Italia in generale e di Fiat-Chrysler, l’unica azienda ad avere investito in Italia negli ultimi anni.
Il rischio che Fiat-Chrysler chiuda qualche stabilimento italiano non è del tutto campato per aria… non a caso nella lettera che Marchionne ha mandato a tutti i dipendenti del gruppo in Italia (dopo lo sciopero di un’ora a Grugliasco da parte dei soli tesserati Fiom) dice “noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare”. La lettera di per sé è esagerata, parliamo di uno sciopero di un’ora… in questo modo però lui ha messo le mani avanti, anche perché – soprattutto ora che c’è stata la fusione con Chrysler – Fiat non può continuare ad accumulare perdite ripianate da Chrysler.
Non si sostiene l’industria – cosa che tutti i governi del mondo fanno – con la cassa integrazione, l’industria si sostiene con progetti di sviluppo. Ma in Italia chi è capace di fare progetti di sviluppo? Se chiediamo lumi al Presidente della Commissione Industria del Senato ci dice che bisogna aumentare le tasse per evitare che gli imprenditori vadano all’estero… W l’Italia!
In in collaborazione con www.think-in.it