È all’esame della commissione Lavoro del Senato il ddl delega in materia di riordino dei rapporti di lavoro. Fra gli argomenti oggetto del presente disegno di legge, che va dalla riforma degli ammortizzatori sociali al riordino dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché alle misure di sostegno alla maternità, ve n’è uno che promette già di essere terreno di scontro fra le forze politiche e sociali in quanto implicitamente è sotteso a riscrivere ancora l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
L’emendamento in parola prevede infatti l’introduzione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione – eventualmente in via sperimentale – del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, volte a favorire, nell’intento del legislatore, l’inserimento nel mondo del lavoro.
L’obiettivo di rilanciare il contratto a tempo indeterminato annunciato nel ddl è oggi quanto più attuale dal momento che attraverso le novità introdotte nel contratto a termine, quest’ultimo appare oggi la forma contrattuale più appetibile per le aziende. Per contrastare quindi un sistema lavoro che presenta un numero di contratti a tempo indeterminato pari a solo il 16,5% contro un 68% di contratti a termine così come rilevati dai dati Isfol dello scorso aprile, occorre fornire nuova linfa al contratto a tempo indeterminato, rendendolo più competitivo e desiderabile per il mondo delle imprese. Ma come?
Analizzando le proposte sinora avanzate, che dovrebbero definire le modalità concrete di attuazione del contratto unico a tutele crescenti, si possono distinguere due distinti progetti. Uno di essi prevede un contratto a tempo indeterminato reso più flessibile nel primo triennio con la facoltà di licenziamento dietro pagamento di un’indennità di modesta entità, e con applicazione dell’articolo 18 dall’inizio del quarto anno in poi. Un secondo orientamento prevede la costituzione di un contratto ordinario a tempo indeterminato regolato, con una garanzia di stabilità minima all’inizio del rapporto e via via con il crescere dell’anzianità di servizio della persona interessata, l’impresa vede crescere gradualmente anche il costo della separazione, restando ferma l’insindacabilità del licenziamento anche dopo il terzo anno, salvo il controllo giudiziale sulle discriminazioni e rappresaglie.
Tutte le proposte sinora avanzate rappresentano, evidentemente, modalità diverse di interpretare la flexsecurity partendo dal presupposto (falso) che un’eccessiva rigidità in uscita risulterebbe di ostacolo all’incremento occupazionale. Si consideri inoltre che l’introduzione di un sistema di tutele crescenti basato sulla mera previsione di un costo di uscita del lavoratore non è altro che una esasperazione del novellato articolo 18, nel quale il legislatore ha già focalizzato la propria attenzione in un’ottica di depotenziamento della tutela reale, prevedendo infatti una prevalenza della tutela indennitaria per la maggior parte dei licenziamenti, salvo i casi più gravi di licenziamento quale quello insussistente, discriminatorio o di rappresaglia dove resta ancora applicabile la reintegra.
Pertanto, l’eventuale attuazione di un contratto a tutele crescenti potrà prevedibilmente comportare un ulteriore abbassamento delle tutele con il conseguente aumento del contenzioso e, dunque, maggiori costi sia per il lavoratore che per l’azienda, senza alcun reale impatto positivo sull’occupazione di lungo termine.
Bisogna dunque chiedersi se l’interesse primario delle aziende sia proprio quello di vedere riconosciuta alle stesse la possibilità di risolvere il rapporto di lavoro senza l’alea della reintegra, secondo i principi della flessibilità in uscita, ovvero il tema vada piuttosto spostato sul versante di una flessibilità che intervenga durante il rapporto di lavoro, preservando gli interessi delle parti, a tutela dell’occupazione.
Una soluzione che va nel segno indicato, può essere dunque raggiunta attraverso l’apposizione, all’interno di un contratto a tempo indeterminato, di una clausola di flessicurezza che, entro determinati limiti stabiliti dalla legge, consenta al datore di lavoro un rafforzamento ed estensione dello jus variandi, ad esempio mediante la modifica unilaterale delle mansioni (anche in deroga all’art. 2103 c.c.), dell’orario di lavoro o della retribuzione. Detta clausola dovrebbe essere operante solo in presenza di specifiche esigenze produttive, organizzative e/o tecniche a tutela del lavoratore, prevedendo altresì un termine di preavviso prima di disporre la modifica al rapporto di lavoro e in ogni caso non potrà essere utilizzata con specifici soggetti “deboli”, quali ad esempio lavoratrici madri, disabili, ecc.
In tal modo, verrebbe assicurata la stabilità del lavoratore e al contempo sarebbe consentita maggiore flessibilità nell’organizzazione di un’impresa al sopraggiungere di determinati eventi produttivi ed economici che graverebbero sull’operatività dell’impresa stessa. Il rilancio della competitività del mercato del lavoro non deve infatti passare da posizioni ideologiche connesse al vecchio tema dell’articolo 18, ma da una disciplina che sappia interpretare in concreto le nuove esigenze delle imprese che fanno occupazione.