Domenica prossima ricorrerà il XV anniversario di quel tragico 19 marzo del 2002, quando un commando di assassini brigatisti attese Marco Biagi sul portone di casa e l’uccise a sangue freddo. La moglie e i figli udirono il rumore dei colpi di pistola e in un attimo capirono di essere rimasti soli. Oggi, la figura e l’opera di Biagi sono state ampiamente rivalutate. Il suo insegnamento continua a essere vivo e fecondo e a orientare l’evoluzione del diritto sindacale e del lavoro, grazie all’impegno di Marina Biagi alla testa della Fondazione dedicata al marito e di quel pool di amici, tra cui Michele Tiraboschi e Maurizio Sacconi, collocati dal destino (che non è sempre cinico e baro, ma a volte giusto) in posizioni-chiave in Parlamento e nel mondo del diritto del lavoro, che a Biagi e al suo pensiero fu ostile.
In occasione dell’anniversario l’Associazione Amici di Marco Biagi e il Centro studi Adapt presenteranno, il 15 p.v. nella solennità di palazzo Madama, un Libro Bianco dedicato al welfare della persona: un lavoro collettivo di tanti che conobbero e lavorarono con il professore bolognese. A molti anni di distanza le intuizioni di Marco hanno lasciato il segno e largamente influenzato quel pacchetto di norme innovative raccolte nel Jobs Act. E quando Matteo Renzi afferma che un impianto legislativo siffatto avrebbe dovuto essere varato vent’anni prima, rende l’onore dovuto a colui che per quegli obiettivi si era battuto fino all’estremo sacrificio. Ma chi era Marco Biagi? La migliore definizione è la seguente: un “giurista di frontiera”, attento a quanto si muoveva nel limbo dei nuovi rapporti di lavoro.
Mentre i suoi colleghi contrassegnavano le aree grigie del mercato del lavoro con la classica scritta “hic sunt leones”, Marco parlava apertamente di “diritto dei disoccupati” cioè di “quella fragile trama normativa esistente per coloro che non hanno ancora un lavoro, che lo hanno perso o che sono occupati nell’economia sommersa”, fino a spingersi a varcare il confine della “flessibilità normata”, nella consapevolezza che il primo dovere del giurista è di portare la “regola” laddove non esiste: una regola che serva alla società reale e che non pretenda di fare il contrario, di costringere cioè i processi fattuali a sottoporsi a norme insostenibili e perciò condannate ed essere violate, neglette o eluse.
A pensarci bene la capacità innovativa di Biagi somigliava a quella del bambino della fiaba che non esita ad affermare platealmente che il “re è nudo”, mentre tutti gli altri continuano a elogiare la morbidezza delle sete e l’eleganza della foggia di un vestito inesistente. Marco fu protagonista, a cavallo tra la fine del “secolo breve” e l’inizio del terzo millennio, di un’operazione culturale così radicale da incontrare il rancore dell’accademia che vedeva posti in discussione certezze tanto antiche da essere ormai divenute dei pregiudizi.
Biagi fu un precursore, in quanto comprese, tra i primi, che stava sorgendo e ampliandosi una “zona grigia” nel mercato del lavoro che non costituiva un fenomeno degenerativo, ma che aveva delle caratteristiche proprie, verso la quale stava indirizzandosi l’evoluzione (magari anche l’involuzione) dei rapporti di lavoro. Mentre la dottrina tradizionale si sforzava di ricondurre tali processi (considerati anomali se non proprio truffaldini) all’interno di una visione classica del lavoro dipendente standard, Biagi cercava di intravederne e studiarne i presupposti giuridici che li avrebbero resi non solo legittimi, ma utili se regolati e trasparenti. Un giurista di frontiera, dunque, sempre pronto a ritentare la ricerca del mitico “passaggio a Nord Ovest” tra lavoro dipendente e autonomo, sempre interessato a varcare quei confini verso l’ignoto del “lavoro diverso e dei diversi”, nella consapevolezza che ci fosse uno spazio importante da occupare.
Biagi cominciò studiando la figura del socio-lavoratore di una cooperativa (al tema dedicò una monografia): una sorta di Giano bifronte insieme padrone e dipendente di se stesso. Ben presto si accorse che questo rapporto non si poteva definire secondo un profilo di carattere generale. E che la concreta realtà dei fatti era tale da imporre il proprio punto di vista alla stessa norma astratta, oscillando – in rapporto all’effettivo grado di partecipazione alla vita dell’impresa – tra la reale presenza del profilo di socio e l’effettiva finzione a copertura di un rapporto di lavoro subordinato. Non abbandonò mai quel terreno di ricerca che aveva intrapreso da giovane studioso, tanto che le più recenti normative in materia di lavoro nelle cooperative ricevettero da Biagi un contributo risolutivo. Ma l’innamoramento dell’età matura del professore bolognese fu quello che lui chiamava “il diritto dei disoccupati”. In altre parole, aveva compreso quanto il lavoro (qualunque fosse) potesse svolgere una funzione inclusiva nella società e nel mondo dei diritti. Quel lavoro che, nel disegno dei Padri costituenti, non è solo un diritto, ma un preciso dovere dei cittadini. Alla luce di questi principi, non esiste – lo si è predicato per anni – una “cattiva” occupazione, perché ogni lavoro è “decente”.
Che altro aggiungere? Se è vero che i morti ci osservano dai verdi pascoli del Signore, Marco, raggiunto anche dal padre Giorgio, riposa sereno e in pace. Si dice che la morte sia una partita di pallone che gli altri giocano senza di noi. Se è così, Marco (che di quello sport era un appassionato) è ancora vivo. E gioca con noi. Non solo nella memoria, ma nelle opere. E sono proprio le opere – che lasciamo dietro di noi – a vincere quell’oblio che è peggio della morte.