La Cgil ha denunciato il governo italiano all’Ue. Susanna Camusso ha infatti presentato un esposto alla Commissione Ue contro la riforma del lavoro varata dal ministro Giuliano Poletti perché, a detta del sindacato di corso d’Italia, il recente provvedimento contrasterebbe con la disciplina europea. Secondo il sindacato, infatti, il decreto Poletti, “eliminando l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea che, al contrario, sottolinea l’importanza della stabilità dell’occupazione come elemento portante”. Il ricorso farebbe leva su fonti normative ma anche su sentenze già emanate dalla Corte europea su normative analoghe, come ad esempio quella greca che, tuttavia, faceva riferimento a contratti acausali di durata massima inferiore a quelli oggi introdotti in Italia.
La novità è che, innanzitutto, la Cgil si pone in modo netto contro il partito (Pd) con cui, prima di Matteo Renzi, ha a lungo flirtato. Evidentemente, come pare da diversi mesi, qualcosa negli equilibri tra sindacato e partito sta cambiando. Esaminando poi nel merito la questione, i punti principali su cui si basa il ricorso sono quattro: 1) “la causalità per il ricorso ai contratti a termine rappresentava un argine contro un loro utilizzo improprio”; 2) “eliminarne la motivazione lascia spazio a usi impropri che penalizzano il soggetto debole, cioè il lavoratore”; 3) “il combinato disposto di acausalità, rinnovi e proroghe espone il lavoratore al rischio di non riuscire a firmare mai un contratto stabile indicato come contratto comune proprio dalla normative europee, con forti penalizzazioni soprattutto per i soggetti più a rischio, lavoratori over 50 e donne; si introduce un’assoluta discrezionalità rispetto ai licenziamenti”; 4) “non ci sarebbe alcuna prova statistica che all’aumento della precarietà corrisponda un aumento dell’occupazione”.
Per la Cgil l’obiettivo ultimo della denuncia è quello di “cambiare norme che stanno penalizzando fortemente i giovani e i soggetti più deboli rendendo più vulnerabili socialmente e economicamente generazioni di lavoratori”.
In effetti, la Cgil tutti i torti non ce li ha… ancora una volta, con il recente intervento, il legislatore si è ritrovato a spingere forme alternative a quella ordinaria, col risultato che il contratto a tempo indeterminato resta ancora così com’è – e come è sempre stato – ma allo stesso tempo è sempre più inutilizzato. Il monitoraggio della legge Fornero ha rilevato che nelle oltre 10 milioni di assunzioni del 2012, solo il 17% è a tempo indeterminato, quindi solo 1 su 7 circa. Questo perché il contratto a tempo indeterminato non è mai cambiato, non ha accolto flessibilità; il legislatore ha continuato a creare alternative all’istituto ordinario non riuscendo – per responsabilità non solo sue – a introdurre forme di vera stabilità nella regolazione del rapporto di lavoro, che naturalmente non può prescindere dalla flessibilità di cui le aziende oggi hanno molto bisogno.
Il 66,4% dei contratti oggi è a tempo determinato, e ora con l’acausalità crescente saranno sempre di più e sempre meno a tempo indeterminato. In soldoni, flessibilizzando quello che dovrebbe essere lo strumento rigido (il contratto a tempo determinato) non crescono certamente le tutele nel lavoro.
Certamente, per avere quella stabilità che la stessa Cgil lamenta, serve ripensare il contratto a tempo indeterminato, e in particolare a una soluzione che introduca flessibilità in uscita ma che offra al lavoratore la possibilità di ricollocarsi attraverso interventi di politica attiva obbligatori, pagati dall’azienda e dalle regioni e sostenuti dalla rete degli operatori pubblici e privati: questa è la vera flexicurity che funziona in tutta Europa, ma non in Italia.
Questo tentativo è stato più volte provato, ma non è mai riuscito: c’è, naturalmente, da mettere mano all’articolo 18. Oramai parliamo di una rigidità che non offre più nessuna forma di garanzia. Susanna Camusso cosa ne pensa?
In collaborazione con www.think-in.it