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Home » Lavoro » Sindacati » JOBS ACT/ Cgil, lo “sgambetto” fallito a Renzi

  • Sindacati
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JOBS ACT/ Cgil, lo “sgambetto” fallito a Renzi

La Cgil ha presentato un ricorso alla Corte di giustizia europea contro il decreto Poletti convertito in legge, prima tappa del Jobs Act di Renzi. Il commento di GABRIELE FAVA

Gabriele Fava
Pubblicato 22 Agosto 2014
Camusso_ProfiloR439

Susanna Camusso

È di qualche giorno fa la notizia che la Cgil, accodandosi a una serie di altri ricorsi sulla medesima materia, ha sottoposto al vaglio della Corte di giustizia Ue la Legge n. 78, meglio nota come Jobs Act. A freddo può essere interessante valutare se il ricorso in questione abbia solo una finalità di disturbo politico, ovvero goda di un certo fondamento giuridico. La prima questione affrontata dai ricorrenti è quella della violazione della Direttiva 99/70: il preambolo dell’Accordo quadro europeo, recepito nella citata direttiva, e la Corte di Giustizia sanciscono che il beneficio della stabilita` dell’impiego e` un elemento portante della tutela dei lavoratori. Secondo la Cgil, il decreto Poletti e la successiva legge di conversione contrasterebbero, oltre che con la ratio della normativa europea, con lo stesso dettato normativo, in quanto la riforma amplia notevolmente la possibilità di ricorrere al contratto a tempo determinato, andando così a intaccare la forma preminente di rapporto di lavoro, ossia quello a tempo indeterminato.


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Le misure previste dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella Direttiva 1999/70 per prevenire gli abusi derivanti da un uso improprio del rapporto di lavoro a tempo determinato dovrebbero concretizzarsi in: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti a termine, b) una durata massima del rapporto a termine, c) un numero massimo di rinnovi. Peraltro la norma chiarisce la natura alternativa delle succitate limitazioni, affermando che gli stati membri sono tenuti a porre in atto “una o più misure” tra quelle elencate. In sostanza il punto fondamentale perché il ricorso al contratto a termine sia legittimo è che l’esigenza soddisfatta dal datore di lavoro sia temporanea e non stabile. In questo senso anche la giurisprudenza della Corte europea, peraltro citata dalla stessa Cgil.


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Non esiste quindi un obbligo espresso di indicazione della ragione dell’utilizzo del contratto a tempo determinato, poiché come detto l’indicazione delle “ragioni obiettive” è solo una delle misure indicate in forma alternativa per prevenire l’abuso in tema di rinnovo del contratto a termine e non è presupposto dell’apposizione del termine tout court. Pertanto, in punto di violazione delle regole di causalità dei contratti e di “ragione oggettive”, il ricorso proposto dinnanzi alla Corte di giustizia europea appare infondato.

Quanto sopra è ancora più vero se si considera che il legislatore italiano, sebbene abbia abrogato la necessità di una motivazione specifica per il contratto a tempo determinato, ha introdotto un limite oggettivo al numero di contratti di questo tipo (20% del totale).


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Circa invece la presunta violazione del principio dell’impossibilità di utilizzare i contratti a termine per soddisfare esigenze durevoli e permanenti del datore di lavoro, il legislatore italiano ha certamente individuato sia un limite temporale (36 mesi), sia un numero massimo di proroghe del contratto, ossia 5. Ciò secondo il sindacato sarebbe insufficiente, poiché in ogni caso il termine sarebbe tanto esteso da consentire un abuso ai danni del lavoratore. La tesi in questione sarebbe altresì suffragata dalla giurisprudenza comunitaria, che (con la sentenza C-378/07 Angelidaki) ha affermato il principio secondo cui la compresenza di due delle misure previste dalla clausola 5 dell’Accordo quadro, recepito nella direttiva 99/70, nella fattispecie ragioni oggettive e durata massima totale, non è sufficiente a giustificare i rapporti a termine, qualora con essi venga soddisfatta un’esigenza stabile.


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Ancora un volta, tuttavia, non si considera che la Legge 78 prevede un limite massimo, piuttosto basso per la verità, che annulla il rischio che il contratto a termine divenga la forma di occupazione preminente. Inoltre, per fare un raffronto sulla convenienza delle due tipologie contrattuali, a termine e a tempo indeterminato, sarà necessario attendere la veste definitiva del contratto a tutele crescenti che dovrebbe costituire la forma fisiologica di occupazione.

In definitiva, sull’altare dell’incremento occupazionale, tutto ancora da dimostrare, si sono sacrificati alcuni diritti dei lavoratori ma non in misura tale da confliggere con la normativa comunitaria in tema di rapporti di lavoro a termine.


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  • Tags: Cgil

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