Quante cose si possono fare con un miliardo e mezzo all’anno? Davvero tante. Ad esempio, si possono aprire tanti asili nido pubblici: circa mille, in circa tre anni, secondo l’annuncio del governo di Matteo Renzi, che ha insistito in particolare su questo tema durante la presentazione del programma governativo dei prossimi “mille giorni”.
In realtà, non si tratta di soli asili nido, ma anche di scuole dell’infanzia, essendo la fascia d’età interessata quella da 0 a 6 anni: ma si sa, parlare di nidi, in un paese come il nostro, con una percentuale di partecipazione femminile al lavoro tra le più basse d’Europa, fa decisamente più notizia. Cos’altro si potrebbe fare con un miliardo e mezzo all’anno? Per esempio, approntare un piano nazionale alternativo per la conciliazione tra famiglia e lavoro, che invece di intervenire sulla vita di genitori e figli si concentri sul miglioramento dell’organizzazione professionale; un piano che, in altre parole, non contempli come unica possibilità l’affidamento dei neonati (sì, perché tali sono gli ospiti dei nidi) a terzi e la delega del loro accudimento sin dalla prima infanzia, magari allo Stato.
Qualche esempio concreto? Si potrebbe partire dallo smart working, che malgrado i proclami governativi resta ancora tutto da esplorare. La disponibilità ormai universale di strumenti di collaborazione a distanza, uniti ai costi estremamente ridotti sia per quanto riguarda l’hardware che il software, fanno sì che la necessaria dotazione di dispositivi professionali per il lavoratore a distanza, un potenziale fattore bloccante per l’allargamento del telelavoro, rappresenti ormai un tema del tutto secondario. Di più, gli stessi dispositivi personali sono ormai utilizzabili – e largamente utilizzati – anche a scopi lavorativi, secondo la filosofia del bring your own device (BYOD).
La via maestra è dunque quella di promuovere attraverso una fiscalità agevolata per le imprese, partendo da quelle che operano nel settore dei servizi, che sempre secondo l’Istat impiegano nel 2011 il 67% della forza lavoro attiva, e per le quali è più agevolmente ipotizzabile la transizione da un’organizzazione fondata sulla presenza a una fondata sul rendimento. Lo stesso tipo di strumento potrebbe essere utilizzato per incentivare l’accoglimento da parte delle imprese delle domande di passaggio dal tempo pieno al part-time, compatibile con una varietà di professioni ancora più ampia: in entrambi i casi, il vantaggio fiscale dovrebbe essere progressivo in ragione della crescente percentuale di modifica del regime lavorativo.
Ancora, si dovrebbe proseguire con l’estensione del congedo parentale fruibile da entrambi i genitori, naturalmente sempre su base volontaria, sull’esempio di altri paesi europei – dei quali vengono spesso e volentieri ricordate le migliori performances in tema di copertura dei nidi, ma che ci superano anche e soprattutto nel campo delle altre misure di conciliazione.
Secondo l’Oecd Family Database aggiornato al maggio di quest’anno, il numero di settimane complessive di congedo obbligatorio e facoltativo a cui ha diritto una madre italiana secondo il cosiddetto “full-rate equivalent” (ottenuto cioè partendo dal periodo a stipendio ridotto, e calcolando a quante settimane a stipendio pieno equivalga), sono appena 25, contro le 32 norvegesi, le 35 tedesche, le 48 svedesi, le 42 finlandesi. Sempre per l’Oecd, nel 2009 l’Italia spendeva per i congedi obbligatori e facoltativi per ciascun bambino appena sotto il 20% del Pil pro capite: meno della Spagna, della Francia, della Germania, della Gran Bretagna, della Norvegia, della Svezia, della Finlandia, ma anche della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, dell’Islanda…
Per finire con la possibile istituzione di un “buono infanzia” universale, sul modello dell’assegno tedesco denominato Betreuungsgeld del quale abbiamo già parlato su queste pagine. Invece di essere semplicemente destinato ai genitori che decidono di occuparsi personalmente dei figli, dovrebbe essere pensato come un sostegno alla famiglia, che può decidere liberamente se destinarlo a coprire in parte la differenza tra la retta di un nido privato e quella di uno pubblico, oppure la retribuzione di una baby-sitter, o ancora a compensare le mancate entrate familiari nel caso in cui uno dei due genitori abbia deciso di fruire del congedo parentale… Uno strumento flessibile, insomma, su misura di un’esigenza che cambia nel tempo e da famiglia a famiglia. La consistenza del sussidio è decisiva per evitare la ricaduta in un modello statalista e assistenziale: un intervento mirato e contenuto deve limitarsi a creare le condizioni per favorire la scelta tra le varie opzioni, senza rendere l’una smaccatamente più conveniente dell’altra (il che vorrebbe dire, di nuovo, che lo Stato si sostituirebbe a chi è chiamato a scegliere, vale a dire la famiglia).
La vera difficoltà non sta nel pianificare e realizzare questi interventi, la cui fattibilità economica è pari, se non superiore, rispetto a quella dei mille asili nido di Renzi. Secondo l’ultimo annuario Istat del 2013, in Italia ci sono circa un milione e 600mila abitanti sotto i tre anni: se si puntasse a coprire con le misure di conciliazione almeno il 33% di essi – così come accadrebbe, secondo il piano del governo, per gli asili nido –, si tratterebbe di circa 540mila bambini. Con una spesa annua per ciascuno di essi di circa 2800 euro (quanto risulta dalla divisione di un miliardo e mezzo per il loro numero), e considerando la propensione di ciascuna famiglia ad avvalersi dell’una o dell’altra misura, ci sarebbe ampio margine per percorrere le soluzioni alternative che abbiamo prospettato a puro titolo esemplificativo.
Ma la vera difficoltà è favorire il cambiamento, è contemplare la possibilità di preferenze diverse in momenti diversi, è abbracciare la flessibilità, in nome della libertà di scelta. Mentre, si sa, un asilo nido è per sempre: rigido e immobile, come le politiche di conciliazione di uno Stato dirigista che malgrado tutto non cambia ancora verso.