Nei dibattiti economici sul lavoro e sull’occupazione vi è spesso ambiguità su alcuni concetti che forse vale la pena chiarire. Lo spunto per rifletterci viene dall’interessante e recente incontro promosso da Retemanager e Fondazione per la Sussidiarietà, tenutosi presso l’Umanitaria di Milano, dal titolo “L’uomo come risorsa” a cui hanno partecipato Giorgio Vittadini, Alberto Sportoletti, Veronica Squinzi e Gigi Petteni.
Nella storia del dibattito economico si è iniziato a concepire il lavoro come semplice “fattore della produzione” alla pari del capitale e con esso fungibile nella misura in cui la tecnologia ha potuto sostituirne alcune funzioni. Poi, consapevoli della natura diversa dei due fattori – ma ancora con una certa ambiguità – il lavoro è diventato “capitale umano”. Anche questo concetto, tuttavia, era troppo “materiale” per comprendere tutto il potenziale che l’uomo incorpora e si è allora passati a parlare di “risorse umane” per le attività produttive e nelle scelte delle imprese.
Il passaggio all’idea che l’uomo sia una risorsa, non solo per la vita economica, ma per lo sviluppo della società nel suo insieme, costituisce un ulteriore passo avanti. La domanda da porsi diventa dunque quella di capire per chi e per cosa l’uomo è una risorsa. Per rispondere occorre introdurre un chiara distinzione tra lavoro e occupazione.
Da un lato l’uomo è una risorsa in quanto “lavoratore” perché per un’impresa (e per la Pubblica amministrazione) è portatore di alcune conoscenze e capacità, professionali e relazionali, che possono consentire di migliorare la sua produttività e il suo valore aggiunto. L’importanza della formazione e delle conoscenze è quindi fondamentale dal punto di vista “aziendale”. Ma l’uomo è anche più di questo come risorsa, perché l’uomo è un soggetto portatore di caratteristiche ed esigenze molto più ampie di quelle valorizzabili dal punto di vista economico.
L’uomo ha la capacità di iniziativa, di creatività, di “intrapresa”, qualunque sia l’attività in cui è impegnato, nel suo posto di lavoro (pubblico, privato, di volontariato), ma anche a casa e nel contesto delle sue relazioni sociali. L’uomo infatti è portatore di una serie di bisogni infiniti, di realizzazione di sé, per sé e per il contesto in cui vive (famiglia, aggregazioni sociali a cui partecipa, comunità locali a cui appartiene). Così come ha interessi culturali, ha esigenze di sicurezza, di qualità ambientale di vita; può esprimere solidarietà e accoglienza, ha un innato e insopprimibile bisogno di relazioni.
In queste sue molteplici attività – con i suoi infiniti bisogni e il suo diffuso “contributo” alla società – egli suscita sempre attività “economiche” dirette o indirette: quando va al museo o al cinema per soddisfare le sue esigenze culturali; quando chiede servizi sociali per l’educazione dei suoi figli e la cura della propria o della loro salute; anche quando partecipa gratuitamente ad attività di volontariato. In questo senso l’uomo è risorsa non solo come lavoratore in un’azienda, ma anche come soggetto di “domanda”: e non solo di consumi.
Se si guarda in quest’ottica l’uomo come risorsa si può allora porre attenzione al tema dell’occupazione. Se ci sono bisogni, esigenze, domande che si spostano sempre più avanti – una volta soddisfatte le esigenze primarie di alimentarsi, vestirsi, riposarsi sotto un tetto – possono esistere attività economiche che cercano di rispondere a esse. Creando, appunto, occupazione.
L’uomo perciò è “risorsa” anche perché genera occupazione in risposta ai bisogni infiniti di cui è portatore. Questo aiuta a non temere che l’innovazione tecnologica distrugga occupazione: ne può generare altra, magari in settori e attività diverse che rispondano a domande non solo di beni tradizionali di consumo, ma di servizi anche primari. D’altro canto, anche le esigenze più elementari non sono ancora state soddisfatte in molte parti del mondo e per grandi strati di popolazione. L’uomo, dunque, oltre che risorsa come lavoratore, per il lavoro, è risorsa anche per l’occupazione che genera con i suoi bisogni infiniti.
Ci sono tre conseguenze che vale la pena considerare se si vuole valorizzare appieno l’uomo come risorsa, anche “economica”: la prima è l’ascolto dei suoi bisogni, che si manifestano in modo diverso nelle varie parti del mondo, a seconda dei livelli di sviluppo e quindi di una “scala” di esigenze primarie (si pensi a quelle espresse dai migranti, anche nei paesi cosiddetti sviluppati) o secondarie, dove la soddisfazione dei bisogni è sempre più sofisticata.
La seconda implicazione, emersa anche nel corso dell’incontro recente, riguarda l’educazione, sia nel risvolto della consapevolezza che ogni uomo ha di essere portatore di bisogni, sia nel risvolto delle sue conoscenze e relazioni con cui può contribuire alla risposta ai bisogni, propri e di altri uomini. La terza implicazione riguarda infine le relazioniche l’uomo intrattiene nelle diverse forme sociali, da quelle famigliari a quelle comunitarie: curare queste ultime sfida le politiche di sviluppo a pensare all’uomo come risorsa di capitale sociale, di un Paese e dei suoi territori.