“A quei sindacati che vogliono contestarci, chiedo: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia, tra chi il lavoro ce l’ha e chi no, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi precario?”. E’ la domanda del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dopo le critiche sul Jobs Act piovutegli addosso dai sindacati. Ieri il segretario della Cgil, Susanna Camusso, ha osservato: “Mi sembra che il presidente del Consiglio abbia un po’ troppo in mente il modello della Thatcher”. Abbiamo chiesto un’analisi al professor Francesco Forte, economista, ex ministro delle Finanze.
Professor Forte, non le sembra un po’ improbabile questo paragone tra Renzi e la Thatcher?
Sì, è un paragone che non sta in piedi. La riforma del lavoro firmata da Margaret Thatcher a suo tempo è stata molto drastica, mentre quello di Renzi è solo un compromesso. Il Jobs Act non abolisce l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, anzi in qualche modo lo conferma sia pure con la formula delle tutele crescenti. La riforma di Renzi supera alcuni tabù, ma non è per nulla paragonabile alla “rivoluzione” della Thatcher.
Da un punto di vista dei contenuti, qual è la differenza?
La Lady di Ferro negli anni 80 attuò una privatizzazione dei contratti di lavoro, consentendo ad aziende e lavoratori di scegliere autonomamente il loro contenuto. Il Jobs Act di Renzi al contrario è interamente strutturato come un contratto di lavoro di diritto pubblico. Le contrattazioni aziendali decentrate ci sono già, e quindi è abbastanza evidente che la riforma di Renzi è tutt’altro che un deciso passo avanti. Paragonarlo alla Thatcher mi sembra quindi un complimento eccessivo, anche perché l’allora premier inglese spezzò i sindacati.
E’ vero che Renzi vorrebbe stravolgere lo Statuto dei lavoratori?
No, perché a essere abolito non sarebbe lo Statuto dei lavoratori, bensì solo l’articolo 18, cioè una norma che non ne faceva parte nello spirito originario. Le altre norme, che riguardano il diritto dei sindacati di fare assemblee e gli stessi distacchi sindacali, rimangono in piedi. Renzi quindi non sta muovendo guerra ai sindacati, ma sta cercando un compromesso rispetto all’articolo 18 che è frutto di un periodo particolare della storia italiana.
Ma abolire l’articolo 18 è poi così importante?
Sì, è importante e soprattutto non sarebbe una cosa di destra o addirittura di estrema destra come dice la Camusso. L’articolo 18 non è stato voluto infatti dai partiti italiani di centrosinistra, all’epoca coalizzati per sostenere il governo Rumor, ma fu un’aggiunta allo Statuto dei lavoratori sull’onda dell’emergenza nazionale determinata dalla strage di Piazza Fontana. Nel contesto dell’autunno caldo, la Cgil faceva ostruzionismo e come condizione per cambiare la sua posizione, in cambio dell’astensione riuscì a far passare un emendamento che poi divenne l’articolo 18.
Insomma quella vittoria per la Cgil divenne una vera e propria bandiera?
Proprio così, l’obbligo di reintegro si trasformò nel simbolo di qualcosa che si voleva far passare come un successo unitario, mentre nella realtà non lo era affatto perché rappresentava piuttosto il compromesso storico. Chi afferma che l’abolizione dell’articolo 18 sarebbe un attacco allo Statuto dei lavoratori, non ha capito che nella realtà la norma sul reintegro è una sorta di “corpo estraneo” rispetto all’intero Statuto.
Quali sono i limiti della riforma di Renzi?
Il problema della riforma di Renzi è che lascia in piedi il modello neocoprorativo. Non si capisce perché le aziende debbano applicare dei contratti nazionali, limitandosi a scegliere tra quello del commercio o della meccanica. E’ qualcosa che va contro le stesse regole europee, ed è su questo che la Germania dovrebbe esigere che anche l’Italia le rispetti. L’articolo 1 del trattato di Maastricht cita infatti la libertà di mercato, che andrebbe declinata negli ambiti dei capitali e del lavoro. Fatto sta che anche una riforma prudente come quella di Renzi finisce per urtare una sensibilità politica.
(Pietro Vernizzi)