“Sono disponibile a riaprire la sala verde di Palazzo Chigi, a confrontarmi la settimana prossima. Con Cgil, Cisl e Uil. Li sfido su tre punti: una legge della rappresentanza sindacale, salario minimo, il collegamento con la contrattazione di secondo livello”. Sono le parole del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nel momento in cui l’abolizione dell’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18 divide un sindacato che sta attraversando numerose difficoltà. Da un lato la Cgil ha indetto una grande manifestazione a Roma per il prossimo 25 ottobre. Dall’altra Cisl e Uil sono più propense a trattare sulla modifica dello Statuto dei Lavoratori. Per Giorgio Benvenuto, segretario generale Uil dal 1976 al 1992, e in seguito parlamentare per tre legislature, «non si può rinviare all’infinito una soluzione che offra nuove prospettive a milioni di giovani che già oggi sono privi di qualsiasi tutela».
Sull’articolo 18 la Cgil da un lato, Cisl e Uil dall’altro, hanno due linee molto diverse tra loro. Quale delle due posizioni è più corretta?
La mia opinione è che Cgil, Cisl e Uil devono trovare una posizione comune. In una situazione nella quale il sindacato è all’angolo e con una popolarità tra la gente sempre più in bilico, come risulta dai sondaggi, il fatto che ciascuna sigla vada per conto proprio prelude a un ulteriore isolamento dei rappresentanti dei lavoratori in una fase decisiva per il rilancio della nostra economia. Più che mettermi a dare voti a Cgil, Cisl e Uil, insisto sul fatto che devono fare in modo di ritrovare l’unità.
Eppure le divergenze sembrano inconciliabili…
Proprio per questo i rispettivi segretari devono tornare sui loro passi. Il governo e Confindustria non avranno interesse a sentire il sindacato, se quest’ultimo non è in grado di prospettare una posizione comune. Sono stato nel sindacato in posizioni di responsabilità dal 1969 al 1992, e in quegli anni nessuna delle tre organizzazioni ha mai fatto ricorso per conto proprio allo sciopero generale, nemmeno quando ci fu il dissenso sulla scala mobile.
Il fatto però è che il testo definitivo della riforma del lavoro non c’è ancora. La manifestazione della Cgil non è anche prematura?
Sono abituato a un sindacato che discute, tratta e fa gli accordi. Capisco che Cgil, Cisl e Uil siano in difficoltà, ma si possono fare iniziative cercando di “stanare” il Governo per fargli fare delle proposte e indicazioni più precise. È una ragione in più per lavorare insieme. Le cose così come sono oggi non vanno, ci sono milioni di giovani senza nessuna tutela. Non si può rinviare all’infinito, quindi bisogna trovare una soluzione. La proposta annunciata dal governo è contraddittoria, ma quantomeno contiene un’indicazione. La proposta del sindacato invece deve essere ancora costruita.
Bonanni ha dato le dimissioni da segretario della Cisl. È un modo per non affrontare questa situazione?
No. Bonanni doveva lasciare a metà del prossimo anno, ma si è reso conto che essendo in uscita non aveva l’autorevolezza di un segretario con tutto il mandato di fronte a sé. È nella natura delle cose che un sindacalista a un certo punto passi la mano, come in passato è accaduto anche a me.
Renzi ha ricordato che i sindacati non sono tenuti ad applicare l’articolo 18. Non è un paradosso?
Non sono solo i sindacati a non applicarlo, ma anche Confindustria e i partiti. In queste realtà non c’è un rapporto tra dipendente e datore di lavoro come in un’impresa, ma una situazione per cui chi lavora per una determinata organizzazione ha anche incarichi di responsabilità al suo interno. Questa quindi è una norma ragionevole.
Nel 1985 il Cnel, di cui faceva parte Luciano Lama, segretario della Cgil, propose a maggioranza di rivedere l’articolo 18. Perché allora la Cgil era disposta a una riforma mentre oggi quella stessa norma è diventata intoccabile?
Allora il Cnel aveva un grande ruolo nel nostro Paese. L’ipotesi formulata, che poi sia il governo sia gli stessi imprenditori lasciarono cadere, prevedeva che l’articolo 18 fosse adattato a nuove realtà. L’obiettivo era una modernizzazione di questa norma dello Statuto dei Lavoratori, e si chiedeva in cambio che i sindacati potessero controllare quanto avveniva nelle fabbriche, attraverso una sorta di “cogestione” come avveniva in Germania. Quell’accordo prevedeva dunque un’attenuazione dell’articolo 18 e nello stesso tempo che in Italia si introducesse il meccanismo della partecipazione.
(Pietro Vernizzi)