«Lo Statuto del Lavoratori è la vera causa del crollo della produttività nel nostro Paese dal 1970 in poi». È la tesi di Pietro Merli Brandini, per molti anni dirigente della Cisl con ruoli di rappresentanza nel Comitato economico e sociale dell’Unione europea (1958-1978) e nel Tuac-Ocse (organismo sindacale dell’Ocse) e attualmente Presidente del Cenform-Centro Formazione e Studi di Roma. Nel momento in cui lo scontro sull’articolo 18 approda al Senato, abbiamo chiesto a questo testimone storico delle battaglie sindacali nell’Italia dagli anni ’50 a oggi di raccontarci il suo punto di vista inedito e originale.
Perché Cisl e Cgil hanno posizioni così diverse sulle modifiche all’articolo 18?
La diversa posizione di Cisl e Cgil sulla proposta di Renzi di modificare l’articolo 18 trae origine dalle radici dei due diversi sindacati. A differenza della Cgil, per la Cisl salari, miglioramento delle condizioni di lavoro e benessere diffuso vanno perseguiti attraverso lo strumento dei contratti. Quindi la Cisl è stata sempre orientata a risolvere i problemi interni non con la legge, che si approva per poi applicarla universalmente, ma con gli accordi e la contrattazione.
Sancire diritti che valgono per tutti non favorisce soluzioni più trasparenti?
Il problema è che molte leggi sul diritto del lavoro nella realtà servono a tutelare soltanto una parte dei lavoratori, e in particolare quelli che stanno meglio. L’intero architrave tradisce il senso della legge, perché una norma o è generale e si applica a tutti, o è meglio che non ci sia. La Cisl è sempre stata un sindacato che contratta nell’interesse dei suoi iscritti, e pur avendo sempre avuto un campo delimitato di rappresentanza, quello dei lavoratori dipendenti, è conscia del fatto che bisogna fare poi i conti con l’interesse generale.
Chi ha ragione sull’articolo 18, Renzi o la Camusso?
La confusione cui assistiamo oggi ha un’origine abbastanza recente. Elsa Fornero ha fatto entrare nel licenziamento individuale per giusta causa una categoria che non c’entra niente, cioè i lavoratori allontanati per eccedenze economiche. Tutto è nato da un equivoco di fondo, e cioè dal fatto che la Cgil ha camuffato i licenziamenti collettivi come se fossero individuali. Cioè ha generato un simbolismo sull’articolo 18 che vale tanto per i suoi oppositori quanto per i suoi fautori.
Che cosa c’era prima che l’articolo 18 entrasse in vigore?
Gli accordi interconfederali del 1950 e del 1965 regolavano la questione del reintegro sul posto di lavoro secondo modalità conciliative che sono risultate molto efficaci. Da quando abbiamo accettato quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori le responsabilità sono passate di mano, e la sovranità dal contratto si è trasferita alla legge. Il piagnisteo sulle forme contrattuali che ne è conseguito non è colpa dei sindacati, ma dei politici che non sono in grado di affrontare questi problemi.
Lei ritiene che lo Statuto dei Lavoratori storicamente abbia impedito al Pil dell’Italia di crescere?
Lo Statuto dei Lavoratori è stata un’idea di Pietro Nenni, un politico di formazione ottocentesca, convinto che lo Stato avesse il compito di garantire il paradiso in terra a tutti gli esseri umani. In questo modo Nenni ha messo nei guai l’Italia intera. Prima di allora con gli accordi interconfederali e la sovranità delle parti sociali, avevamo assistito al miracolo economico italiano.
Quindi che cosa è successo?
Dal 1970 ai nostri giorni c’è stato un crollo di Pil e produttività, è venuta meno la competitività e la gente è sempre più sfiduciata. Sono questi i problemi che dobbiamo affrontare oggi, e la cui origine si colloca nel momento in cui il sindacato ha accettato di rinunciare alla sovranità in tema di contrattazione sul lavoro a favore delle leggi stabilite dalla politica.
(Pietro Vernizzi)